Disteranno pochi passi, le due stampe fotografiche di grandi dimensioni: si fronteggiano dalle pareti opposte, separate dallo spazio del pavimento e dal tempo che impiegherà chi guarda a dare le spalle ad una per voltarsi in direzione dell’altra; divise da una pausa, da un margine silenzioso che permea l’aria, la ‘carica’ di una sorta di magnetismo abbacinante.
Solo apparentemente inerti, le due immagini di Venezia di Elger Esser (Stoccarda 1967) sembrano appena assopite in un segmento di tempo che non sarebbe altrimenti riconoscibile: si sono realizzate le condizioni perfette, è quel momento squisito in cui si compie un incanto che non si può spiegare, di cui si può provare – forse – ad elencare gli elementi visibili, tacendo di quell’invisibile, di quel persistente che li fonde. Il chiarore è soffuso,
C’è l’eccezione – in un’immagine la casa, nell’altra la forma sfrangiata dello specchio d’acqua – l’alterazione istantanea di quell’ordito fatto di molto cielo, sabbia e cespugli scuri: eppure neanche l’emergere verticale dell’edificio o l’estendersi irregolare dell’acqua incrina quel ‘qualcosa’ che potremmo definire ‘armonia’. Il blocco costruito – ma senza abitanti, o almeno non visibili – l’acqua che sembra incastrata tra le due lingue di terra, il fuscello che viene fuori dalla superficie , sono un contrappunto che s’innesca, risuona ed ha la sua breve eco quando l’occhio lo incontra; dopo sembra riassorbirsi.
In mostra – nella stanza più piccola attigua a quella d’ingresso – anche una serie di foto: nomi di città, assemblati accostando piastrelle, ogni lettera su un rettangolo di ceramica smaltata, alcune, solo blu, sono una sorta di pausa riempita da un unico colore. Il tempo e gli accidenti terreni sembrano ricordarceli i buchi da cui fa capolino l’intonaco.
Le ultime due immagini sono riprese di spazi interni, definiti da una lama di luce, di quelle stanze fanno parte gli abitanti silenziosi: una donna ed un bambino, in una, nell’altra una donna di spalle. Il suo viso è chiuso nel rettangolo di un specchio.
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