Due sculture
Senza titolo, presenze verticali nello spazio di Mara Coccia Arte Contemporanea. Alle pareti, collage polimaterici di
Louise Nevelson (Kiev, 1899 – New York, 1988), provenienti dalla Pace Gallery di New York. Opere presentate a Roma per la prima volta, in collaborazione con la Fondazione Marconi, parallelamente alla mostra fiorentina allestita alla Galleria Il Ponte.
Le sculture hanno la sacralità rituale del totem, territori della poetica dell’
object trouvé. Una porta, una scatola-armadio. Il legno – c’è anche qualche pezzo di ferro: chiodi, cerniere… – è completamente dipinto di nero; quel nero opaco che, come altrove il bianco e l’oro, cattura la luce, l’assorbe come una spugna. Una ricerca sull’arte come contenuto-contenitore, che l’artista porta avanti per quasi trent’anni fra New York e Monaco, con rigore e coerenza, prima di proiettarsi totalmente verso la scultura, all’inizio degli anni ’40. Louise Nevelson è una donna di grande determinazione, un’autentica outsider nella corrente dell’Espressionismo Astratto, in un momento in cui l’arte è declinata quasi esclusivamente al maschile.
Sottolineare la matrice femminile del proprio lavoro è un’esigenza, come quando afferma: “
Gli incavi, le fessure, i dettagli mi affascinano. Il mio lavoro è delicato; può sembrare vigoroso, ma è delicato. La vera forza è delicata. In essa c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è femminile”.
Della fine degli anni ’50 sono i grandi assemblaggi, detti anche “
muri scultorei”: contenitori riempiti con oggetti di scarto d’ogni tipo. Rifiuti trovati e raccolti in piena consapevolezza, restituiti poi a nuovi linguaggi, alla maniera del Dadaismo. “
Quando raccolgo un pezzo per metterlo in un lavoro”, scrive Nevelson in
Atmospheres and Environments (1980), “vive e aspetta proprio quel pezzo. Non è che si rompe una cosa e la metti dentro. Così sarebbe autocosciente e non avrebbe vita. È per questo che raccolgo il legno vecchio che ha avuto una vita, che le automobili hanno travolto e i chiodi rovinato. Devi tagliarlo, qualche volta, devi anche romperlo, qualche volta, ma bisogna che sia fatto in un certo modo, non rotto inconsciamente”.
Più liberi da certi schemi narrativi, i quindici collage (datati fra il 1959 e il 1986) svelano la matrice picassiano-cubista, a partire dalla ridefinizione della tecnica stessa: zona di confine tra pittura e scultura. Ma anche, imprescindibile, la lezione del Dadaismo, del Surrealismo, della Metafisica.
Più che d’ironia, si deve parlare di messinscena teatrale. Ciò che Nevelson crea è una sorta di teatrino delle ombre, giocato sulla variazione delle forme che, benché tridimensionali, nella rappresentazione risultano visivamente appiattite.