Il Maxxi -pur avendo la connotazione di spazio improntato al futuro (e alla ricognizione del nuovo)- persegue, al contempo, un’importante finalità storica, tesa a documentare e ad analizzare criticamente le espressioni più significative del secondo ‘900: un periodo nettamente contraddistinto dall’escalation americana, nuova “maestra di stile”, destinato a “fare tendenza”.
Tuttavia, il curatore Paolo Colombo, fine conoscitore del panorama statunitense, opta per un protagonista defilato dal mainstream e dal sistema ufficiale delle multinazionali dell’arte. A Ed Ruscha (Omaha, Nebraska, 1937) è dedicata, infatti, l’ampia retrospettiva allestita nella sede di via Guido Reni. La vicenda artistica s’intreccia a quella esistenziale, che si snoda sulla celebre Route 66, percorsa in automobile da Oklahoma City a Los Angles, nel 1956.
Un viaggio, a dir poco, iniziatico, che accomuna molti giovani artisti formatisi nell’Ovest degli Stati Uniti tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60. Il deserto e la sua vertigine spaziale destano un fascino ipnotico, che si fissa nella psiche sotto forma di flash immediati. A posteriori, le immagini riaffiorano dal ricordo improvvisamente, come un dejavù. Il vuoto spaziale che si avverte lungo il circuito infinito delle freeways suscita l’impressione di naufragare in the middle of nowhere. Tale condizione favorisce, da un lato l’affinamento delle facoltà enterocettive, dall’altro la registrazione fulminea e random del paesaggio visto dal parabrezza della vettura. A scandirlo sono, innanzitutto, le stazioni di servizio, leitmotiv di un ampio reportage fotografico, selezionato e raccolto in un libro del ‘63: Twenty-six Gasoline Station. Il soggetto incarna l’estetica on the road radicata nell’immaginario americano, pervaso di car culture. Lo stesso Ruscha si autodefinisce, ironicamente, “Ford Man”, in omaggio all’industria di Detroit, fondata su un concept automobilistico utilitario e popolare. Un simbolo della società di massa, come la zuppa Campbell e le scatole Brillo! di warholiana memoria.
Non a caso, il clima in cui esordisce Ruscha risente d’influssi post-Pop, declinati nell’idioma locale dell’assolata e ricca California. Qui, la parola d’ordine non è quella inurbata e filo-europea della New York School, ma lo slang easy e immediato della vita quotidiana, dall’anima decisamente folk. Un vernacolo spontaneo e sui generis, alimentato dal fascino patinato di Los Angeles: surreale ed effimera come una quinta scenografica; rigorosamente standardizzata nel suo look artificiale di cottages, palme e piscine. L’uniformità spossante di questo paesaggio “anemico” è smorzata dall’appeal accattivante della segnaletica stradale, per cui Ruscha nutre una forte attrazione.
Pertanto, elabora una peculiare forma di espressione verbo-visiva, in grado di coinvolgere il fruitore sul piano sinestetico. La parola è inglobata nei suoi lavori pittorici, sia come elemento grafico, sia formale. Le scritte assumono una valenza molteplice, sempre evocativa: di suoni, sapori, odori, suggestioni legate all’immaginario contemporaneo. Inoltre, l’artista esplora le diverse varianti stilistiche delle lettere, da quelle gotiche e retrò, a quelle ispirate alla grafica pubblicitaria, analizzandone il potere d’impatto iconico, prima che semantico. Ruscha, dunque, come un writer ante-litteram… La scritta incarna la quintessenza di un’identità, sigillata nella cifra icastica ed immediatamente riconoscibile del marchio. Si pensi a quella cubitale che campeggia sulla collina di Hollywood, emblema di un mito. Il riferimento al cinema, universo parallelo e speculare che riflette il lifestyle made in California, caratterizza gli ultimi lavori dell’artista: vedute gigantesche, panoramiche, aeree di cime montuose, che ricordano il logo della Twentieth Century Fox. Immancabile il corredo linguistico, dissociato e spiazzante rispetto all’immagine: un voluto nonsense che si confà alla vacuità di un habitat illusorio, regno incontrastato della fabula mediatica.
maria egizia fiaschetti
mostra visitata il 30 giugno 2004
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