Per chi ama i generi e le catalogazioni, davanti alla produzione artistica di
Boris Achour (Marsiglia 1966; vive a Parigi) sarà fortemente in imbarazzo nel trovargli una razionale e definitiva collocazione. Seppur l’artista francese avverta tutto il suo lavoro come unitario -a un suo catalogo ha dato il semplice titolo di
Unité-, a uno sguardo d’insieme si nota come il suo operare balzi e rimbalzi dalla performance (fortemente provocatorie, come lanciare lungo la strada confetti ai passanti, filmando le loro reazioni) alla fotografia, dalla pittura ai video, alle installazioni, per le quali utilizza i più disparati materiali.
Ma, nonostante questa varietà di linguaggi nonché eterogeneità di lavori, che a fatica, se non si ha una conoscenza specifica e diretta dei suoi lavori, si possono ricondurre ad Achour, tutta la sua produzione ha il proprio fondamento su un unico pensiero, mutuato dal filosofo secentesco Baruch Spinoza. Principio essenziale del pensatore olandese era la ricerca della felicità intesa come salvezza, vedendo nei beni desiderati, trasformati da mezzi a fini, i più grandi impedimenti per il raggiungimento del fine ultimo, appunto la felicità, poiché renderebbero schiava la mente dell’uomo.
Conatus è il termine che Spinoza utilizza per indicare l’agire umano volto all’ottenimento dei beni e che Achour usa come titolo per una serie di mostre iniziata da qualche anno.
Tale pensiero “geometrico” sembra trovare la propria espressione nelle coloratissime fasce del wall painting. Ottenute in realtà grazie a fogli colorati, incollati direttamente sulle pareti, le strisce vanno dal verde al rosa, dal giallo al blu, e si stendono per tutta l’altezza dei tramezzi, ricordando i movimenti tettonici, ricoprendo i muri dei diversi ambienti, attraversando e abbattendo la fisica divisione architettonica delle stanze.
Espediente enfatizzato dal titolo della mostra –
Conatus: Timescape– che, scritto con rigidi tubi al neon bianchi, si distribuisce anch’esso nelle tre sale, e che ogni giorno si accende in parti diverse. Quindi, nella prima sala è appesa la prima sezione, ovvero
tim, nonché un rudimentale
mobile realizzato con cordicelle colorate gialla e blu, una grezza asta in legno e una brillante sagoma di una mano ricoperta da paillette fucsia. Le fasce continuano sulle pareti della seconda sala, con la seconda parte del titolo,
escap, mentre sul pavimento nove sculture ricordano altrettante stalagmiti. Il titolo si conclude nell’ultimo spazio: qui le fasce colorate si stendono solo sulla parete destra e la semplice
e è appesa al muro di fondo, lasciato libero dai colori.
Su questi ultimi sono invece appesi otto poster di attori, cantanti e star dello sport (da Pamela Anderson a Victoria Silvstedt, da Eminem a Leonardo Di Caprio), ricoperti da impronte di mani. Per indicare la bramosia del possesso, il desiderio di emulazione e d’identificazione. Nonché la primitiva ma non ancora dimenticata usanza del “tocco delle reliquie”.