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fino al 30.IX.2006 Marc Quinn / Christian Boltanski Roma, MACRO e Mattatoio
roma
Ancora due big a Roma. Due generazioni a confronto. Tra trionfi della non-morte (e della non-vita) e suggestioni esistenzialiste più o meno in situ. In totale un’antologica e mezza, quasi due…
Vent’anni esatti separano le date di nascita di Marc Quinn (1964) e Christian Boltanski (1944), in mostra in contemporanea nelle due sedi del MACRO. Vent’anni, peraltro, pesantissimi. E tuttavia, la scelta di ipotizzare nel 2006 una qualche connessione tra un’iconografia legata all’heideggeriano essere-per-la-morte –esistenzialista via Sartre e d’après Giacometti, per intenderci– e l’immaginario sublime di Damien Hirst e compagni, smagliante proprio perché mortifero –vogliamo dirlo? tra una generazione engagée e la generazione del disimpegno–, è proposta che ha un suo fascino e una sua sottile ragion d’essere. Certo, ci sarà chi vorrà liquidare la faccenda parlando di esemplare de-generazione (dal moderno al postmoderno, coi soliti anni ‘80 a fare da spartiacque tra il bene e il male). Ma nel merito, confrontati il paradosso raggelante dei dormienti stecchiti deposti a terra dell’inglese e le teche in cui il francese compatta abiti borghesi sotto il peso di colonnine (vertebrali) al neon, l’affinità tra i due pare proprio quella –inconfessabile– che lega, sempre, i figli (che magari negano) ai padri (che negano certamente). Tanto vale, allora, stare al gioco; tanto vale riconoscere che a Roma, in ossequio al paradigma picaresco del “vedo doppio”, la morte si fa bella in due versioni da visionare, una via l’altra, in rapidissima sequenza. Una a cristalli liquidi e l’altra, per così dire, in bianco e nero.
La retrospettiva su Marc Quinn è un degno saggio suoi trionfi della non-morte (e della non-vita) che ostentano, tutti, la fibrillazione concettuale –e l’urgenza amorale– del memento mori che non è (più) tale. Così, si va dal ghigno sfavillante di colori dei fiori sepolti vivi nel silicone (la serie dei Flower Paintings, sorta di dannunziana mort parfumée in versione hi-tech), alle carcasse in bronzo (per lo più conigli) che paiono pulsare come cumuli di feti.
Dai personaggi “addormentati” di cui sopra, tremendamente impigliati in un giaciglio che non c’è (Chemical Life Support, installazione scultorea il cui concept è la dipendenza di alcuni soggetti da specifici farmaci), al calco in placenta della testa del figlioletto dell’artista (Sky), sequel dell’autoritratto del ’91 realizzato con cinque litri di sangue congelato (Self), liquefattosi perché qualcuno –raccontano le cronache– ha dimenticato di non staccargli la spina.
E ancora: dal fervore parossistico di scheletri inginocchiati in preghiera (le installazioni Waiting for God e Waiting for Godot), all’imperturbabilità dei busti in marmo di nudi mutilati o, all’opposto, di una Kate Moss colta in improbabili contorsioni fisiche (nella scultura Sphinx, negli acquerelli di una sala a sé stante e in un’intera mostra in corso, in parallelo, presso la galleria Alessandra Bonomo).
Chi delude, tutto sommato, è Christian Boltanski all’ex mattatoio. Ci si aspettava l’intervento –intrinsecamente– site-specific, forte e strutturatissimo in quanto tale. E invece la montagna ha partorito il più classico dei topolini. Sarà che una location così congeniale può intimidire anche il big, assai lesto nella fattispecie a rivolgersi al demone sempre in agguato del compitino. Oppure che l’impresa è riuscire impaginarle, queste scaltre soluzioni intermedie tra l’unicum installativo vero e proprio e l’antologica da museo semplicemente trasposta fuori sede.
Fatto sta che Exit, sedicente “percorso verso l’annientamento” concepito per un padiglione da mille metri quadri, è mera giustapposizione di momenti più o meno risaputi (gli abiti appesi come presenze spettrali, qui in luogo di animali macellati; le teche coi neon e i soprabiti; la lampadina palpitante issata al fondo a mo’ di pala d’altare), sfilacciata in quanto dispositivo pseudonarrativo e piuttosto gracile come apparato allegorico-sensoriale. E dire che l’idea delle campate-cabina ricavate coi teli di plastica avrebbe meritato di essere sviluppata con convinzione. Il clou? Il video 6 septèmbres proiettato direttamente contro la plastica traslucida, reso illegibile onde produrre l’intermittenza diffusa del lumen freddo dei televisori. Perché l’intimismo va bene, ma non la spettacolarizzazione a tirar via, che lo degrada a solipsismo.
pericle guaglianone
mostre visitate il 6 luglio 2006
Marc Quinn / Christian Boltanski – Roma, MACRO– via Reggio Emilia 54 (orario: dal martedì alla domenica 9/19)
MACRO al Mattatoio – Piazza O. Giustiniani 4 (orario: dal martedì alla domenica 16/24) info: +3906671070400 – Sito web: www.macro.roma.museum – E-mail: macro@comune.roma.it – ingresso libero
[exibart]
organizzare mostre mediocri su artisti di indubbio interesse non è facile: continuate così
mi vengono due dubbi su questa recensione.
uno: che il critico abbia davvero visto le mostre poichè i fiori sotto silicone di Marc Quinn non erano in mostra
due: che capisca veramente di arte contemporanea poichè la mostra di Marc Quinn è orrenda, anche nell’allestimento, quella di Boltanski è una riuscitissima ed emozionante installazione.
cosa poi avrebbe dovuto fare Boltanski con i teli di plastica? mah!
Solipsismo degradante? La stragrande maggioranza di arte contemporanea potrebbe esserlo.
In questi due casi, vedrei come una apparizione di soggetti-oggetto, ovvero installazioni fantasmagoriche, in quanto del loro esistenzialismo non ne percepisco l’essenza umana.
Le foto delle opere di Marc Quin sono state scaricate da internet (lo spazio é quello di White Cube / Jay Jopling). Comprare una macchinetta digitale? Mi sa che qualcuno non si é andato a vedere la mostra…
Piccola nota: i titoli che designano i simulacri di plastica “addormantati senza giaciglio” indicano protocolli farmaceutici per la cura di malattie più o meno gravi… Io ho visto solo la mostra di Quinn e, francamente, l’ho trovata ridicola nel suo insieme. Bella invece “Sky”, la testolina del figlio, di tutt’altro livello rispetto al resto.
Vengo spesso a Roma, ma il Macro mi mancava. Ci vado finalmente in occasione della mostra di Marc Quinn. Highs and lows ma abbastanza coinvolgente. Certo la trovata migliore è Kate Moss. Non dico che sia un’operazione esclusivamente commerciale, ma certamente attira anche chi d’arte non si interessa. Al di là del soggetto, belle le pose plastiche ed anche le deformazioni ad acquarello. Lo studio anatomico è sempre affascinante anche se, quando condotto su corpi perfetti, sembra un po’ sterile. Già perchè anche quando i soggetti di Quinn sono i mutilati, ciò che si vede è comunque troppo perfetto.
Piuttosto acuta la disposizione frontale di DNA GARDEN (2001) e WAITING FOR GODOT (2006): non so se dipenda dall’artista o dagli organizzatori della mostra, ma ne risulta una rappresentazione artistica del rapporto fra scienza ed etica/religione.
Insomma, nonostante la volontà di scandalizzare e creare disgusto sia un po’ troppo forzata (e sorpassi, a mio parere, un sincero bisogno d’espressione), la mostra di Quinn dà senso alla visita al Macro. Già perché se non ci fosse stata, il posto in sé mi sarebbe sembrato una barzelletta. La collezione permanente è poverissima e di dubbio valore. Il museo d’arte comtemporanea della capitale… un’indizio sulla marginalità dell’arte contemporanea in Italia! Vergognoso!