Mat Collishaw (Nottingham, 1966; vive e lavora a Londra) il caravaggesco, teatrale e drammatico quanto il famoso pittore italiano. Forse anche di più. Che “l’allievo” abbia superato il maestro? Si e no, e a questa domanda diamo una risposta tanto salomonica non perché il confronto tout court tra un’icona della storia dell’arte e un artista contemporaneo ci spaventa, ma poiché risulterebbe banalmente parzializzante (oltreché puramente “scenico”) un parallelo che chiuda entrambi gli occhi di fronte a tempi e modalità tanto distanti tra loro.
Ciò che interessa realmente, e che resta comunque fuori di dubbio, è come il britannico Collishaw sia riuscito a trarre spunto dalla maniera più tipica dell’artista lombardo senza sprecarla o ancora peggio profanarla. Anzi – e qui sta il nodo della questione – non si pecca di blasfemia a dire che in qualche modo l’ha potenziata, attenendosi scrupolosamente a certi dettami e adattandoli ad una produzione artistica che non scende a compromessi con la sua reputazione contemporanea.
Imprinting caravaggesco in un ambiente rifilato a misura, con grandi sale tutte pavimenti a scacchi bianco-neri, pareti rosso acceso e soffitti alti a volte. Palcoscenico migliore non si potrebbe chiedere per i Burning Flowers, fiori ardenti incentrati sull’elegante colloquio tra cromatismi brillanti e fondo nero, esteticamente in regola per fare un figurone nelle abitazioni più ricercate. Predisposti a farsi largo tra le frivolezze di un salotto mondano, dove entrano però come un “cavallo di Troia” che dopo aver calmato intensi pruriti di natura estetica sfodera la sua effettiva indole di “vanitas 2.0”. E così questi deliziosi fiori flambé diventano l’iperbolica immagine di una realtà tristemente transitoria, iconograficamente narrata in particolari come le bruciature che contornano i petali, gli stessi petali che regalano punte di lucentezza fuori dall’ordinario, le fiamme colorate innalzate come illusori pennacchi decorativi.
Appiccare il fuoco, innescare la morte interrompendo volontariamente un’esistenza. Perché la morte concepita nei lavori di Collishaw è sempre qualcosa d’indotto e mai naturale, qualcosa che l’uomo infligge, ad un fiore, ad un insetto (nella serie Insecticide) o ad un altro uomo. Ed è in quest’ultimo caso, con i Last Meal on Death Row, che gli stilemi del Merisi cominciano davvero a circolare a pieno regime. L’esigenza è quella di riflettere in maniera non scontata (o almeno non melensa) sulla morte in quanto pena inflitta, affidando il ricordo di un condannato ai dati oggettivamente leggibili nella messa in scena del suo ultimo pasto, un pacato tripudio di tacos, pollo e patatine, frutti ammassati come canestre di frutta che l’artista tramuta in anacronistiche nature morte. Tagliente illuminazione laterale, piani in legno grezzo ricchi di dettagli, ombre marcate che sono presupposto alla resa di dettagli quali la superficie vellutata di una pesca, elementi squisitamente caravaggeschi per una sottesa riedizione post-divina del memento mori. Monito di una morte tutt’altro che mistica e di cui l’uomo risulta assoluto detentore, sempre pronto a deciderne tempi, modi e motivazioni.
Andrea Rossetti
mostra visitata il 10 luglio 2014
Dal 4 luglio al 30 settembre 2014
Mat Collishaw
Unosunove
Via degli Specchi 20 – (00186) Roma
Orari: da martedì a venerdì, ore 11-19; sabato, ore 15-19