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Legate al filo sottile dell’evocazione – evocano infatti “Realtà in equilibrio”, esposizione organizzata nel 1982 alla Galleria Il Segno di Roma – le due mostre dedicate rispettivamente a Carlo Lorenzetti e a Bruno Conte alla Galleria Nazionale, sono sintomo di una vitalità che non solo accende i riflettori su un programma vincente, ma illumina di nuova luce un luogo che fino a qualche tempo fa sembrava assopito, addormentato, raccolto a sé nel custodire con un po’ di gelosia ma memoria artistica italiana.
Queste due preziose retrospettive, organizzate e curate da Peppino Appella, rappresentano quello che si può fare guardando attentamente al Novecento e alle figure dell’arte – quelle nate negli anni Trenta, in questo specifico caso – che hanno disegnato la storia e hanno costruito il suo dibattito felice. Sono infatti due linee di ricerca che, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, accompagnano il fruitore nella lettura d’un panorama fatto di ricerche e di conquiste, di neologismi, di attente inchieste sul volume, sullo spazio e sulla luce: triunviri di un racconto che asciuga e semplifica le forme con una generosità geometrizzante, squillante, aperta a differenti contrade linguistiche (pittura, scultura, architettura, letteratura, fisica, matematica, musica) unite, queste, dal filo sottile d’una compagna di strada, la poesia, che ha saputo svolgere il ruolo di collante, che ha saputo trasformare, modulare, creare nodi d’aria tra il prima e il poi.
Se nella mostra dell’82, inaugurata il 16 dicembre, quasi a offrire una puntata prenatalizia dell’arte, sfilavano un pentagono di nomi – Rodolfo Aricò, Bruno Conte, Carlo Lorenzetti, Giulia Napoleone (a lei sarà dedicata, dal 15 ottobre, una nuova mostra) e Giuseppe Uncini – uniti da Fausto Melotti per sottolineare una linea di ricerca anacoretica, lontana dalle mode della Pop americana e aperta a tessuti visivi dove ogni materiale è strumento che permette all’artista di comporre, di cogliere, di sciogliere la realtà.
Carlo Lorenzetti, Realtà in equilibrio La Galleria Nazionale, Roma
Disposto negli spazi di sinistra, quelli che volgono verso via Antonio Gramsci, il percorso di Carlo Lorenzetti (Roma, 1934) è un vero e proprio viaggio tra sculture e disegni la cui potenza anticipatrice (le opere in mostra vanno dal 1956 al 2014) svela potenti interferenze tra una componente barocca e la boccioniana dinamica dei corpi. Accanto a una serie di elementi organici come la meravigliosa Struttura – Foglia (1968), sfilano una serie di dispositivi più freddi – Struttura – volta (1974) o Tentacolo d’arcobaleno (1979) – dove l’estroflessione della materia crea potenti rapporti con l’architettura e con le zone d’ombra, parte integrante e imprescindibile del lavoro. Ci sono poi, tutta una serie di lastre che sembrano piegate come foglie riarse percorse dal vento (una tra tutte Corrugato annuncio del 1982) e alcuni disegni in cui la materia è preannunciata da gesti sicuri e fulminei, da bave di colore accecanti, inattese.
Definito da Pericle Fazzini, “scultore del vento”, suo maestro assieme a Alberto Gerardi cui deve la conoscenza delle tecniche e l’unione del manuale con il mentale, Lorenzetti mostra una materia presa per la coda e ammorbidita, alleggerita dal filo pungente del fare.
«Già negli anni cinquanta», si legge in una testimonianza pubblicata sul pieghevole che accompagna la mostra «la mia innata inclinazione per l’arte, alimentata da uno studio attento della storia e da una consapevolezza critica della contemporaneità, si è concentrata ad esprimere una mia concezione della scultura tesa a negare ogni consistenza di massa o di peso e orientata a reinventarla nel segno della leggerezza e dell’estensione spaziale. Fin dall’inizio ho scelto la lastra di metallo come materia privilegiata, una realtà bidimensionale con cui costruire una insolita tridimensionalità attraverso lo sbalzo che modula il piano. Lo sbalzo, una tecnica antica», apostrofa l’artista, «è, per me, non certo una “vistosa virtù” da esibire, ma il modo più “moderno”, diretto e coinvolgente, per interagire con la materia».
Da man destra, nelle sale che “guardano” verso via Ulisse Aldovrandi, un illustre naturalista bolognese da non dimenticare, l’alfabeto visivo di Bruno Conte (Roma, 1939) è un racconto che non solo lascia rileggere lo spaccato di un’epoca e di alcune riflessioni sul “dopo l’informale” – si pensi almeno a quel numero speciale del Verri (il 12 della nuova serie, più precisamente) pubblicato nel 1963 – ma invita anche a attraversare i labirinti di un linguaggio onnivoro, di una effervescenza culturale che sa mutare tutto in elegia, in ricordo d’un canto metafisico. Con opere realizzate tra il 1955 e il 2018, Conte plasma infatti un itinerario che lascia allo spettatore una lettura incalzante e avvincente: dai primi lavori astratto-surreali in cui si evincono sguardi sul primitivismo e sul materico si passa, via via, all’azzeramento cromatico (al monocromo), all’assunzione della materia lignea, alla poesia (compagna di strada d’una vita), ai vari ambienti architettonici, oggettuali, segnici. Il concavo e il convesso lo spigoloso e il sinuoso, l’erotico e l’eretico, l’onirico e l’euclideo, l’aperto e il chiuso della forma sono, in questo suo percorso intellettuale, parte di un programma che sollecita e spinge lo sguardo nei mari di una fantasia senza fili, di una creatività abile a cogliere l’organicità del reale e a situare l’esistente nell’ampio spettro della profondità, dello spessore di cui è composta la vita.
Come “organismi” viventi, così sono stati chiamati da Arturo Schwarz nel 1985, i suoi lavori sono strutture, corpi che vivono un rapporto di partecipazione con la loro didascalia – Prezzanza (1970), Stridentro (1977), Lobofobo (1979), Precipinizio (1986), Illessico (1991), Vegestremi (1997) e Contrombra (2015) ne sono alcuni –, processi oggettuali in cui si assapora tutto quello che si può dire quando le parole sono svuotate della voce. «Riguardando i miei primi lavori, dopo la metà degli anni Cinquanta, elaborati entro un microcosmo surreale, mi sembra già di avvertire, nel disegno delle forme lineari, una segreta scrittura», avvisa nel pieghevole alla mostra (che precede un prossimo catalogo). «Non mi sono mai staccato dalle mie prime opere del 1955/56. C’è già un atteggiamento particolare in quegli anni di pittura informale e gestuale. Il carattere della poetica che si è andato sviluppando e mutando fino a oggi si può identificare nella tematica di una misteriosa, eppure coinvolgente, materia della realtà: oltre il macrocosmo, il cosmo assunto nella stanza in cui si opera. Le mie opere sono concettuali, ma nella loro forma, ancora meditata, tra equilibrio e squilibrio. Metafisici eventi e oggetti alieni».
Uniti dallo spago dell’affinità e dalla tela su cui si sedimenta la storia, Carlo Lorenzetti e Bruno Conte sono, oggi, due stazioni irrinunciabili per chi, a Roma, negli spazi della Galleria Nazionale, ha voglia di vivere un sensuale turbamento, di ascoltare alcune voci maestre dell’arte, di smarrirsi nella presenza dell’oggetto, inteso come simbolo, come materia, come memoria.
Antonello Tolve
Mostra visitata il 19 giugno
Dal 19 giugno al 30 settembre 2018
Carlo Lorenzetti, Bruno Conte. Realtà in equilibrio
La Galleria Nazionale
viale delle Belle Arti, 131, Roma
Orari: dal martedì alla domenica: 8.30 – 19.30
Info: lagallerianazionale.com