Dopo il sodalizio musicale con Gianna Nannini all’Auditorium di
Renzo Piano,
Carla Accardi (Trapani, 1924; vive a Roma) giunge alla Galleria Valentina Bonomo con “
le sue nuove, ennesime variazioni sul tema del segno che si fa colore”, come scrive Carlo Alberto Bucci, invitando i lettori a divenire spettatori.
Otto sono le tele di grandi dimensioni che occupano le candide mura con volta a botte della galleria, per collocarsi poi nella piccola stanza in fondo al corridoio e all’ingresso. Ognuna gode di un bianco primordiale, sopra il quale trame perfette di astrazioni cromatiche disegnano false tribù danzanti di un
Matisse non troppo giovane.
Lunghe attese (2008) ruba infatti l’azzurro del serigrafico
Nudo Blu II, per poi abbandonare la via della figurazione. Un’astrazione imperfetta, “
che rifiuta la deriva descrittiva e letteraria della mimesi”, continua Bucci; un’astrazione dalla quale è nata e per la quale è riconosciuta, l’astrazione della Forma 1 che diviene puro colore, piena tonalità di rosso, blu e verde.
Carla Accardi non smentisce la sua espressività e torna davanti alla tela per sperimentare segni discontinui e ormai non più seriali; segni circoscritti, circolari, che sinuosi confermano quel suo stile ornamentale e pieno. Non è un caso che il formalismo degli anni ‘50 difendesse il segno pittorico “
come complemento decorativo di una parete nuda”, lungi da “
influenze decadenti, psicologiche ed espressioniste”, come recitava il
Manifesto Forma 1 del 1947.
Il tratto di Accardi diviene così un puro segno di riconoscimento femminile, nel senso più corposo del termine, bello ma non per forza piacente, solito e riconoscibile. Distante dal cliché del marchio, quel gesto pittorico che da sempre accompagna tele e sicofoil diviene la forma che anima l’ultima
Onda blu (2009) e il rosso gauguiniano di
Intenso rosso (2008), continuando per il verde, senza mai sfiorare il giallo.
Quella da Bonomo è una mostra in cui colori caldi e freddi si distinguono gli uni dagli altri, uniformandosi tuttavia in una corrispondenza visiva adeguata alla forma di cui fanno parte; forma astratta in cui tutto è e nulla sembra, in cui un
Miró distratto sembra usare il raziocinio del segno geometrico. Che, per chi vuole e se si vuole, “
minaccia un’esplosione incombente, la sensazione di un vacillante aggregato di colori flessibili ed elastici in procinto di creare una nuova costellazione luminosa” (Germano Celant).
Il problema è proprio nella nascita della “costellazione luminosa” e di quanto essa sia realmente nuova: il contraddistinto segno dell’Accardi rimarrà sempre distinguibile. Ed è proprio per questo che quella “novità” passerà alla storia, annoverandosi come “nuovo astrattismo”, ormai maturo di un’instancabile gestualità femminile.