In una strada laterale, risparmiata dai rumori del traffico, raccolte negli ambienti immacolati dell’ampia galleria, le fotografie di Thomas Joshua Cooper s’impongono con una loro rigorosa forza interna, come aree d’inedita concentrazione, dove le riflessioni visive di un grande filosofo contemporaneo dell’immagine si offrono alla contemplazione più ancora che all’ammirazione.
Poche e selezionate le opere esposte, parte di un progetto dall’estensione impressionante che da quasi vent’anni sta impegnando l’artista americano (è nato a San Francisco nel 1946, quando non è in viaggio per il mondo risiede a Glasgow, dove nel 1982 ha fondato il dipartimento universitario di fotografia di cui è ancora adesso direttore). Attraverso The World’s Edge. The Atlantic Basin project, Cooper intende infatti mappare visivamente gli estremi fisici delle terre che si affacciano sull’Oceano Atlantico, conducendo tale operazione attraverso mezzi e atti volutamente limitanti. Munito di un banco ottico risalente al 1898, dalle immaginabili difficoltà di trasporto, Cooper scatta una sola immagine per ogni luogo visitato, dopo aver scelto la località sulla base di approfonditi studi, a partire dalle vecchie carte geografiche impiegate per quei viaggi a cui dobbiamo oggi i confini mentali del nostro mondo.
In un’intervista rilasciata di recente alla rivista londinese Pluk, l’artista ha esposto in maniera estremamente chiara il legame ideale tra il suo lavoro e le esperienze di grandi esploratori del passato, a partire da Magellano che spese ventiquattr’ore di meditazione solitaria sul Cabo de San Vicente (la punta estrema a sud-est dell’Europa), un giorno d’isolamento che Cooper ha rivissuto per prepararsi allo scatto fotografico.
In effetti, nonostante Cooper sia stato avvicinato più volte al movimento dell’arte ambientale per la devozione che mostra nei confronti della terra –la sua decisione di dedicarsi esclusivamente a fotografie di paesaggio in b/n risale a quello che egli stesso chiama un vero e proprio ‘voto’ formulato nel 1969- il suo intento dichiarato nel progetto in corso è una verifica dell’uomo e della sua presenza dinanzi all’esperienza del limite, di cui le esplorazioni fanno parte.
“Che cosa vuol dire trovarti all’estremità? Come la gestisci?… Certo l’oceano è affascinante, ma quello che realmente mi interessa è la sottile linea su cui risiede la civilizzazione e come ogni civilizzazione, compresa la nostra, incontra il bisogno di estendere quella linea”.
Di fronte a questo artista splendidamente inattuale, che dichiara di passare il tempo a “contare le onde” sul mare per decidersi a coglierne finalmente l’immagine migliore, la larghezza e profondità di vedute racchiusa nelle sue opere finisce per soffocare se inserita in una classificazione critica ordinaria. Anche per ciò le riflessioni che Cooper viene svolgendo attraverso il progetto in corso sulla memoria storica delle terre abitate -seppure appena visibili quale ultima propaggine di roccia sull’immensità dell’oceano, come nelle fotografie in mostra– sorprendono per la loro meditata estensione, fino ad arrivare a tentare e spiegare usurate questioni contemporanee con un occhio nuovo, capace di catturare la modernità attraverso una macchina fotografica di fine Ottocento. “Una delle mie lezioni è che l’oceano è infinito. Così l’idea della globalizzazione, che è sempre più insopportabile ma ineludibile, è mediata dalla mancanza di limiti, in termini umani, di ciò con cui abbiamo a che fare… La globalizzazione non è così globale come la gente pensa e, per quel che riguarda la nostra relazione con essa, il mondo è più immenso, nella mia esperienza”. Fino a fine giugno almeno, c’è a Roma un’occasione importante per confrontarsi con una simile esperienza.
luca arnaudo
mostra visitata il 27 aprile 2007
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