L’intensificazione delle funzioni fisico-cognitive e l’innalzamento del livello di attenzione sono tra le principali reazioni istintive alla paura. Multiple teorie biologiche, neurologiche, psicologiche e sociali hanno analizzato la diversa campionatura di esempi, dal timore personale di fronte a un disagio, alla paura collettiva provocata e potenziata dai mass media per manipolare o controllare la società. Avvertendo come il terrore, lo spavento, la paranoia o il panico si possono liberamente scatenare all’intravedere un pericolo reale o supposto, presente o futuro, che si esprime inoltre attraverso la ricerca di aiuto o la fuga.
In questa cornice s’inserisce la mostra
Scary World Theory, seconda personale che la galleria Ugo Ferranti dedica a
Lucia Leuci (Bisceglie, Bari, 1977; vive a Bisceglie e Milano). Fin dagli esordi, l’artista pugliese ha analizzato e ridisegnato un numero illimitato di volte la propria personalità utilizzando la pornografia e il corpo generalmente nudo, come elemento insinuante nei propri scatti fotografici, ma sempre in ambienti chiusi. Invece, la nuova serie pretende di raccontare, in spazi sempre aperti, storie di emarginazione attraverso l’ubicazione effimera del corpo, tra gli oggetti di scarto della società contemporanea e l’appropriamento dei luoghi dell’accumulazione.
Figure e forme appena percettibili si smaterializzano all’interno di bizzarre scenografie dove svariati elementi, caoticamente disseminati, compiono un ruolo di spaesamento della visione razionale dello spettatore, che si allontana dal reale. Sfondi precariamente quotidiani, velati, nascosti ma allo stesso tempo potenziati, che compongono una poetica visiva che viene considerata necessariamente nella sua totalità, come fenomeno sovraordinato rispetto alla somma dei suoi componenti, in linea con la teoria psicologia definita dalla Gestalt.
La galleria è così percepita nella sua totalità attraverso i frammenti formati per la serie di scatti di grande formato, che occupano la maggior parte dello spazio, e dall’associazione di oltre cento diapositive, concentrate su una sola parete, configurando un insieme di echi che si diffondono per un paesaggio popolato soltanto dai fantasmi. Apparizioni, come l’
Ofelia di
Millais, spogliata di qualunque simbolismo per rendere immateriale la presenza umana, focalizzando l’attenzione sui petali di fiori che galleggiano in una vasca piena d’acqua sporca, come ricordi abbandonati.
Immagini sfocate da cui originano i non-luoghi, creati attraverso prati sconosciuti, case demolite o frammenti imprecisi e nebulosi del proprio corpo, in cui la presenza femminile compare sempre vestita di nero. Un colore che dilaga perdendosi nel vuoto, come un uragano che non vuole frenare la propria veemenza per il timore di sparire definitivamente e che, associato all’emarginazione, esprime la paura dell’artista, che teme di essere e restare discriminata.