L’operazione, apparentemente semplice, di fermare per immagini seriali anziani signori avvolti nei loro soprabiti e androni di palazzi, assume un significato profondo nell’elaborazione e nella stratificazione di significati elaborati da Antonio Rovaldi (Parma, 1975).
Rovaldi, con questo lavoro, riconferma la sua eleganza e sensibilità nell’osservare la realtà, la capacità non comune di appropriarsi di spazi pubblici facendoli diventare scenario di un’azione intima, personale, autobiografica. Percorre vie interiori, pone i luoghi al centro della sua ricerca e associa ad essi personaggi senza fisionomie determinate, caratterizzate da un particolare metonimico, in questo caso il cappotto, che ne permette l’individuazione.
La sua operazione sembra catturare la loro essenza, di cui l’osservatore si appropria, lasciandosi guidare nella costruzione di una storia personale, che dipanandosi nella coscienza assume un flusso personale e autonomo. Come in lavori precedenti (Non ricordo esattamente quando, 2002; Le spiagge bianche, 2004) l’indagine è focalizzata sulla relazione tra l’individuo e il paesaggio che lo circonda. Il suo lavoro -com’è scritto nel recente catalogo Marcamenti– nasce dal rapporto diretto con i luoghi, che sono scrutati, documentati e vissuti.
L’artista accosta tutti gli elementi secondo un equilibrio narrativo, tra dettagli e sfocature o meglio tra realtà e finzione. Scorrono dunque immagini, ritmicamente cadenzate, di anziani chiusi nei loro paltò, che percorrono anonime strade, posti di spalle rispetto all’obiettivo, così da perdere ogni traccia di identità, spersonalizzati. A significare che l’importanza dei frame non sta nel soggetto in sé, ma nella loro complessità spaziale. Tanto quanto gli interni-soglia di numerosi palazzi milanesi che si susseguono accanto; così comuni e anonimi, ma anche così suggestivi nella loro semplicità di luci soffuse e sfondi monocromatici. Tutte le informazioni che si riescono a cogliere sono prive di legami. Ogni dettaglio catturato si emulsiona a tanti altri senza logiche razionali, senza riferimenti a cui affidarsi; nessuna strada è riconoscibile così com’è improbabile individuare un atrio, tanto meno le persone. Lo sguardo d’insieme, tuttavia, sembra comporsi in un flusso organico che investe lo spettatore e lo rende parte integrante dell’opera, coinvolgendolo in un dialogo continuo.
L’unica sicurezza che ci guida nella lettura di questo lavoro è una piccola scultura di ceramica bianca smaltata dal titolo Simon, di sicuro tra la folla, un autoritratto dell’artista posto su un plinto che lentamente ruota su se stesso. Lievemente illuminata, la scultura emerge nel buio della galleria, come un’isola di senso fortemente autobiografico che evidenzia e sottolinea un definitivo distacco formale da ogni luogo concreto. Il rigirare su se stessi, questo vagare senza senso, sono dopotutto, una necessaria condizione interiore…
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bravo l'artista, brava Paola, brava Barbara!!!
Bravi bella motra.