Paillette e stoffa colorata sfilano con brillantezza lungo una cornice sgargiante, dall’impatto immediato, lasciando a un secondo sguardo la fotografia in digitale che vi è al suo interno: senza lo sfogo visivo di alcun punto di fuga, statuette religiose accatastate ordinatamente e bambole di stoffa racchiuse in buste di plastica passano in rassegna per il nuovo e ironico lavoro di
Baba Anand (Srinagar, 1961; vive a New Delhi).
La Galleria Sara Zanin ha così inaugurato il suo secondo traguardo espositivo, mettendo in mostra l’arte contemporanea indiana e lasciando a
Bharat Sikka il compito di dissuadere gli occidentali dal comune cliché dell’esotico pittorico: la fotografia ha avuto dunque la meglio.
Ma se in Sikka la classe media veniva ripresa in semplici momenti di vita, rivelando uomini comuni in paesaggi “contemporaneamente indiani”, quella di Anand del cliché ne fa un’opera d’arte, esasperando il gusto del kitsch con cornici di lustrini esuberanti. Non solo. Tralasciando le famiglie indiane care a Sikka, Anand riprende mercatini con giocattoli tradizionali, che appende per “bellezza” sulla porta d’ingresso della galleria: bambole in stoffa e plastica, gonfie quasi come se ingurgitassero cortisone, vivono nella stessa condizione dei pesci rossi quando li vinci al luna park. Solo senza pesci rossi e senza acqua; e senza neppure luna park.
La plastica in cui non respirano è l’involucro che le esibisce alle bancarelle, ma le bancarelle nelle foto di Anand non si vedono. Si scorge qualche occhio, una guancia, e poi quelle statuette religiose “made in china”, che però servono ai credenti per pregare divinità piene di sostanze tossiche di fabbricazione: ecco il paradosso. Bambini e devoti inalano la globalizzazione nella semplicità dei loro atti: il gioco e la preghiera si ammalano di un artefatto chimico.
Il nuovo lavoro di Anand prende spunto da quella stravaganza “pop-artistica” che ha contraddistinto le sue prime opere fotografiche: poster cinematografici bollywoodiani invasi da collage di fiori finti e paillette adornavano le star indiane, rendendo le stampe grottesche e scenograficamente kitsch.
Il suo stile non è cambiato; ha soltanto maturato la concezione dell’icona elevata ad arte, passando dalla resa bizzarra di volti famosi, impacciandoli e decontestualizzandoli, fino a render bizzarra la sua società, la sua cultura. Che adora statuette nocive, mentre i figli giocano con la claustrofobia di un economico “made in china”.