La personale di Tracey Emin, protagonista della new wave inglese anni Novanta –o, se si preferisce, YBA (Young British Artists)– reca la sua firma inconfondibile nell’invito, primo strumento di approccio al pubblico. Il cartoncino bianco mostra da un lato la sagoma stilizzata di un gatto, simile ad uno scarabocchio infantile; dall’altro l’impaginazione standard è sostituita dalla scrittura autografa, rigorosamente a mano: pochi tratti per delineare una ricerca, in cui il segno assume una valenza fondamentale. La grafìa stampata sul foglio rivela l’impronta personale dell’autrice, leggibile nello stile impennato e ondeggiante delle lettere. Il muso puntuto del felino racchiude, a sua volta, un chiaro riferimento autobiografico, secondo una prassi consolidata.
Il prelievo dalla realtà non avviene, infatti, in modo casuale e generico; al contrario, attinge alla più profonda intimità, espressa tramite veri e propri oggetti d’affezione. L’animale, che ricorre spesso nei disegni e nelle fotografie, è referente di un legame tanto simbiotico, da spingere l’artista ad affiggere annunci della sua scomparsa. Il gesto spontaneo, al confine tra arte e vita, è stato completamente frainteso da un’audience assuefatta ai modi shockanti e spettacolari dell’arte contemporanea!
Lo sguardo, fuorviato da parametri puramente economici, ha ceduto al miraggio di una facile, quanto indebita, appropriazione, ignorando la profonda autenticità dell’intervento. La stessa che anima tutti i lavori di Emin, permeati da una vena introspettiva e narcisistica, riconducibile alla funzione catartica e confessionale del racconto (storytelling). Una narrazione per immagini, incarnate in forme e materiali che restituiscono la flagranza delle sensazioni, come il letto-feticcio (My Bed Work) del ‘98.
A Roma, l’artista espone tele con inserti di stoffa e ricamate, rispolverando una tradizione antichissima dell’artigianato femminile. La tecnica riveste un chiaro valore simbolico, che allude al tentativo di ricucire il tessuto logoro della propria esistenza, spezzata da eventi traumatici e dolorosi. Dolly (2002) mostra la silhouette ricurva e rannicchiata di una donna; la fisionomia ricorda, piuttosto, quella di un ibrido, privo di connotati specifici. Il nome suggerisce l’idea di un’identità degradata ad oggetto di consumo sessuale (doll significa, apppunto, “bambola”) e isterilita dalla violenza, come un Otage di Dubuffet. Al posto dei genitali -esaltati da Courbet nell’Origine del mondo, spunta un fiore d’orchidea, segno di una rinascita futura. Analogo è il tono di speranza che emana dalla scritta al neon sulla parete: “I’ll wait for you in Heaven”…
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ma quello di courbet, l'origine.., è un capolavoro inquietante della storia dell'arte e delle idee..
roberto matarazzo