L’impatto con le fotografie di
Lorenza Lucchi Basili (Pescara, 1964; vive a Padova) è passionale, addirittura sanguigno. Perché la prima immagine che si presenta allo spettatore appartiene alla serie
Spazio Sessantatre, Seattle: una fotografia di grande formato, d’un violento rosso sangue.
Così appaiono da lontano le immagini di Lucchi Basili: macchie di colore, rosso, verde, azzurro, giallo. Colori densi, saturi, che le fanno sembrare tele monocrome. Ma è una sensazione che viene abbandonata man mano che ci si avvicina. Perché queste macchie danno forma a linee che corrono veloci. Quelle linee strutturali delle architetture, molto lontane da quelle in bianco in nero degli anni ‘30 statunitensi, come da quelle rigide, oggettive e algidamente frontali dei coniugi Becher.
Il rimando alla serialità e alla struttura dell’archivio, se proprio lo si vuole trovare, risiede nell’eseguire i lavori in serie (in fondo, è una prassi per i fotografi).
In questa personale ne sono esposte due: la succitata
Spazio Sessantatre, Seattle e
Spazio Sessantotto, Vienna, quest’ultima eseguita nella metropolitana della città austriaca, dove la novità è data dalla presenza umana, quasi surreale. Dall’operare per serie derivano i titoli dei lavori, che al contempo suggeriscono un racconto cronologico -e un diario personale- delle fotografie. Le immagini di Lucchi Basili sono immagini che sembrano scattate su un ottovolante, dove il soffitto si sostituisce al pavimento e viceversa, in un continuo ribaltamento dei piani e delle leggi gravitazionali, trasformandosi addirittura in delicate farfalle. Sei pannelli accoppiati, infatti, scendono leggeri dal soffitto, creando con le loro macchie di verde una sorta di giungla metropolitana.
E se molti dei suoi lavori sono accompagnati da musiche composte dalla stessa fotografa, questo progetto site specific potrebbe avere come unica colonna sonora
Gli uccelli di Battiato (anche se per alcuni potrebbe sembrare un sacrilegio accostare Battiato agli Yes, ispiratori del titolo della mostra,
Inside out, outside in). Perché, con i loro
“voli imprevedibili e ascese velocissime”, cambiano le prospettive al mondo. E ogni fotografia potrebbe essere un luogo diverso: un anonimo centro commerciale di una qualsiasi città del mondo, o lo scheletrico Beaubourg, o la trasparente Pyramide. Invece sono tutte un diverso punto di vista della stessa struttura: la Biblioteca pubblica di Seattle, progettata da
Rem Koolhaas.
La sua capacità di provocare
“un senso alternativo di de-realizzazione urbana” -scrive in catalogo Mark Gisbourne- è ottenuta attraverso un completo straniamento dal contesto urbano, una profonda decontestualizzazione degli elementi architettonici. Le serie di scatti rapidi, apparentemente sono una documentazione fotografica; in realtà, per la fotografa, sono lo spunto per indagare le relazioni sociali in confronto con l’architettura. Nell’accezione di tensione costruttiva dell’uomo.