L’eccitante inizio della stagione espositiva romana -dopo l’apertura del Palazzo delle Esposizioni e soprattutto immersa nell’intrigante attesa dell’inaugurazione della sede di Gagosian- non coinvolge lo spazio di Giacomo Guidi, che resta fedele alla sua linea, presentando lavori di artisti con un solido percorso di ricerca. Così, dopo nomi come
Vittorio Messina e
Nakis Panayotidis, è il turno di
Pietro Fortuna (Padova, 1950; vive a Roma) che, dopo trent’anni dall’esordio, propone la mostra intitolata
Ebbene.
L’installazione ubicata all’ingresso seduce immediatamente l’attenzione dello spettatore, che si trova situato di fronte a un percorso statico di interminabili cicli vitali. L’artista, lontano dal radicalismo, realizza un lavoro nato dall’integrazione di immagini che finiscono per configurare un’opera tridimensionale, attraverso un utilizzo quasi esclusivo del nero
“severo e depurato di ogni retorica”.
Migliaia di disegni e fotografie, quasi inconsistenti e senza vincoli visibili, sono avvolte in numerosi cilindri di diverse dimensioni, che compaiono e si nascondono alla vista in un’estasi contemplativa che necessità di tempo e calma per essere interamente percepita.
Al piano inferiore, diversi disegni sono dispersi nell’ambiente in modo da creare una sorta di paesaggio dell’attenzione, piccoli frammenti di una realtà che viene celata, in cui lo sguardo viene attirato dalle immagini racchiuse in circoli, lasciando il resto aperto all’immaginazione o alla riflessione.
In questo senso, l’artista -che ha una formazione filosofica- configura un percorso sorprendentemente estetico ma allo stesso tempo offre molteplici chiavi di lettura per un spettatore curioso che abbia l’attenzione di rimanere fermo davanti a una continua successione di idee e visioni. Uno strumento etico, testimonianza e al contempo costruzione formale che documenta “ciò che rimane”. E che sollecita una contemplazione statica, in un continuo flusso tra disegno e forma, tra frammenti sconnessi della memoria e il suo insieme definito come forma, richiamando uno sguardo distratto per trovare un particolare significato.
“Uno stare che non è attesa ma fa della pazienza pensiero di fronte all’irreparabilità del reale”.