Sin dai suoi esordi, risalenti alla ormai lontana fine degli anni Sessanta, l’opera di Braco Dimitrijevic (Sarajevo 1948, vive a Parigi) ha fissato il proprio perno nell’analisi dello statuto riconosciuto all’identità individuale. Spesso l’artista ha allargato la sua pratica operativa all’identità di oggetti e luoghi, ma rimanendo sempre sostanzialmente fedele ad una sorta di personale ossessione per la percezione sociale e le sue strategie.
Assurto giovanissimo alle glorie dell’arte concettuale con la celebrata serie dei passanti casuali (istantanee di persone colte tra la folla, poi riprodotte in gigantografie disposte sulle facciate di palazzi al centro delle grandi metropoli), Dimitrijevic è anche noto per i suoi spiazzanti interventi di monumentalizzazione di spazi anonimi (“this could be an historical place” è la scritta ricorrente sulle targhe apposte negli angoli più disparati) e per le installazioni denominate tripticus post-historicus, realizzate nei principali musei del mondo. Queste combinazioni di dipinti autentici di maestri come Cézanne o Malevic con mobili e oggetti di uso comune, hanno replicato per anni un gioco sottile -per quanto sostanzialmente ripetitivo- con le convenzioni dell’arte e della società, riflettendo sul peso e la fragilità che simili convenzioni (l’arbitrarietà del valore economico, l’idolatria della genialità…) rivestono nella percezione collettiva.
Alla luce del creativo presupposto per cui, esprimendosi attraverso le immagini, Dimitrijevic considera se stesso “un filosofo che comunica alla velocità della luce”, la personale combinata a Roma per la cura di Bonito Oliva continua a portare avanti con coerenza il discorso filosofico qui pur brevemente riassunto, ritornando una volta di più sui meccanismi del riconoscimento identitario, così come sulla loro labilità.
E riesce a far ciò con innegabile effetto, spostando il fuoco dell’attenzione sul rapporto tra opera e creatore –in particolar modo sulla scarsa quando non nulla riconoscibilità di alcuni individui nel loro aspetto fisico, rispetto all’universalità del proprio lavoro– in ambiti come la musica, la letteratura e la scienza, dunque abbandonando il campo di battaglia delle arti visive solitamente frequentato da Dimitrijevic.
È l’artista stesso a riconoscere una continuità nell’impianto concettuale di una simile operazione con la serie primigenia dei passanti casuali, poiché sempre di “rappresentazione di una creatività sconosciuta o genio” si tratta, recuperando ritratti “immagazzinati nella penombra dell’ignoranza collettiva” entro installazioni animate da un’ironia sorniona. Il risultato, riferendoci in particolare alla galleria Il Ponte, è un gioco di spiazzante intrattenimento, illuminato al modo del ritratto di Nikola Tesla sotto una lampadina accesa, e tale da indurre gli osservatori ad inciampare in una riflessione di passaggio (oppure nelle scarpe deposte sotto la fotografia di James Joyce).
luca arnaudo
mostra visitata l’11 gennaio 2007
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