Già nel giugno del 2004 il Mam aveva ospitato un video di
Mircea Cantor (Oradea, 1977) all’interno della rassegna
Preview. Quest’anno la collaborazione si è infittita, producendo una mostra tanto interessante quanto azzeccata per i tempi correnti. Per la prima personale a Roma, l’artista lancia un messaggio chiaro e diretto, impiegando materiali e mezzi che assurgono a simboli della società globalizzata. Un filo spinato (ironicamente titolato
Chaplet) riprodotto a parete ci protegge, occludendoci allo stesso tempo ogni via di fuga e vendendoci una falsa libertà, di cui in realtà non saremo mai padroni. Avvicinando lo sguardo scopriamo che né di carboncino né di disegno si tratta, ma di centinaia d’impronte digitali dell’indice dell’artista, impresse con inchiostro tipografico. Cantor si presenta al pubblico auto-schedandosi attraverso uno dei pochissimi segni che identifichino ciascun essere umano come unico e irripetibile.
Ammiccando all’apertura dell’Unione Europea verso Romania e Bulgaria, l’artista sembra introdurci nel difficile mondo dell’emigrazione, conducendoci immediatamente al nucleo della questione.
Ognuno s’illude di costruire un recinto che isoli dall’esterno, senza accorgersi quanto esso provochi soltanto l’ulteriore sparizione del sé. Il concetto è ribadito in
Nido, dove su un tavolo da ping pong verde sono poste, abbracciate dalla rete, una cinquantina di uova, mentre sul pavimento della sala giacciono sconfitti circa duemila gusci vuoti, reduci di una battaglia senza compromessi. In questo mondo che lascia spazio solo ai vincitori, o ai loro inconsistenti simulacri, le vittime superano notevolmente in numero gli eletti, abbandonate al loro destino di invisibili. Tanto più che lo spettatore è quasi invitato a calpestare il tappeto rosa, assaporando un certo disagio. La scritta
Cielo Variabile, eseguita col fumo di candela, conferma l’instabilità della condizione umana in tempi sempre più incerti e schizofrenici.
In un angolo della terza sala sono appesi pantaloni di fine gessato scuro griffati Emporio Armani, dalle cui tasche fuoriescono ciuffi di ortica. Il lusso che punge e non soddisfa le funzioni primarie di un oggetto. Un quadro riproduce questo stesso lavoro, ravvedendoci con ironia sulla realtà del soggetto: deposti gli strumenti del mestiere, Cantor si serve di escrementi di mucca a mo’ di colori, avvantaggiandosi della tonalità marroncino anticato. Quattro fotografie ritraggono il passaporto rumeno dell’artista, accompagnato da simboli e segni legati al viaggio, all’emigrazione, alla sopravvivenza e alla speranza: soldi, pane, coltelli e chicchi di riso.
Cantor comunica attraverso il quotidiano, con un linguaggio universale, lasciando parlare la semplicità degli oggetti e l’espressività degli accostamenti insoliti. La sua è una riflessione sincera sullo stato di salute della nostra società sbiadita, dove la globalizzazione ha ingurgitato e spianato tutte le differenze. Mentre l’individualità nazionale e personale è ormai diventata sinonimo di “fuori moda”.
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cantor è decisamente sopravvalutato, i suoi lavori sono dignitosi ma un pò scolastici, e soprattutto non si può non avvertire un senso di deja vù.