Non si riesce subito a dare un senso univoco a una mostra di
David Tremlett (St. Austell, 1945; vive a Bovingdon Herts). Non perché non abbia univocità, bensì perché la sua univocità è nella plurivocità. La parola “voci” insita nei due termini non è casuale. Sono le stesse “voci” che l’artista
cornish porta con sé dai suoi innumerevoli viaggi. Viaggi che sono poi il cuore pulsante del suo lavoro, avventure dello spirito durante le quali raccoglie spunti e suggestioni dalle diverse culture che via via incontra. Così, non è possibile interpretare correttamente le sue opere se non si tiene conto dell’impatto emotivo dei colori africani, degli astrattismi mediorientali, delle valenze formali asiatiche.
Una sintesi coraggiosa che l’artista ha prima elaborato in sé stesso, e poi trasposto su carta o, spesso, direttamente sul muro. E anche qui la parola “direttamente” assume un significato cogente. Tremlett non dipinge le pareti, ma stende la sostanza cromatica, nello specifico il pastello, utilizzando esclusivamente le mani.
Un passaggio senza soluzione di continuità tra l’ideatore e il supporto stesso, realizzato con l’eliminazione di qualsiasi medium che possa interrompere il flusso creativo che viene sprigionandosi. Il mancato utilizzo di uno strumento lascia uno spazio inedito all’imprevedibilità, dove le densità e le velature delle campiture sul muro o sul foglio hanno valore in sé, e intessono un dialogo vivace e inaspettato col visitatore. Insieme ai colori autunnali, le cromature di marrone, giallo e verde che spesso sono utilizzate nei suoi lavori propagano l’eco di luoghi arcaici e lontani, spazi simbolo di un’originarietà di cui ormai ignoriamo volontariamente l’esistenza.
Certo, c’è anche l’Occidente in tutto questo. Il saldo senso architettonico, che la fa da padrone nei disegni, rende esplicito il profondo interesse per questa disciplina. Inoltre, la struttura portante della sua arte, così espressivamente geometrica e formale, denuncia tutta l’ascendenza di un’epoca, in questo artista venuto dagli anni ’70, influenzato dalle tendenze del periodo ma che evidentemente di quella esperienza ha conservato l’aspetto più vero e significativo, quello di una composizione pulita, netta e senza sbavature, lasciando dietro di sé certe durezze stilistiche insieme agli schematismi concettuali.
L’
excursus proposto dalla mostra, in questo senso, è completo, e suggellato dal gigantesco
wall drawing che accoglie i visitatori campeggiando imponente sul muro centrale della sala, indubbiamente dotato di un forte impatto evocativo. Tuttavia, l’intento ultimo sembra essere non tanto l’evocazione di una Natura madre e archetipica, quanto piuttosto quello, per certi versi più prosaico nonché decisamente più funzionale, di creare un linguaggio insieme universale e immediato.
Che superi le distanze e le diversità in un costante andar oltre se stesso. Senza però sublimarsi in una concettualità rarefatta, ma restando sempre
al di qua del pensiero e della riflessione, appellandosi a un sentire che è insito in ognuno, e di cui le varie culture, nelle loro diverse elaborazioni, sono a loro modo parzialmente portatrici.