La città che sale, opera di
Umberto Boccioni del 1910, concentrava una serie di tensioni e contraddizioni che Danilo Eccher descrive come
“il simbolo di un’epoca ma anche un tema con cui oggi è necessario misurarsi, il tema della leggibilità del proprio futuro, gli auspici e le ansie, l’irrefrenabile desiderio di precipitarsi nell’ignoto e la fragile necessità di salvaguardare una memoria, un’identità”.
Partendo dal titolo e dalle suggestioni dell’opera futurista, dopo un test non completamente riuscito a Benevento, la mostra arriva a Roma con le stesse intenzioni e le ottime premesse teoriche, ma purtroppo con i medesimi impacci pratici. Così, la volontà di Eccher e Odile Decq di stabilire un equilibrato rapporto fra arte e architettura -attraverso la distinzione tra costruzione utopica, costruzione sociale e costruzione dell’instabilità- diventa stranamente un evidente predominio della seconda, ma soprattutto un incomprensibile isolamento della prima.
In questo senso, lungo il percorso della mostra, nella maggior parte dei casi l’architettura è trattenuta nel suo versante più strettamente estetico, come vaghi ricordi di un’immaginazione avveniristica che resta impassibile di fronte alla realtà frenetica che sostiene quotidianamente. Se il ritratto di Dorian Gray invecchiava al posto del personaggio, qui è il reale a degradarsi mentre si celebra eternamente l’idealizzazione dell’impronta sulla fotografia ingrandita. E in questo contesto, i lavori di alcuni dei nomi più affermati del panorama artistico deambulano isolati alla ricerca di un luogo dover poter respirare, dover poter trasmettere senza interferenze e misurarsi con la capacità di interagire e modificare l’ambiente circostante.
Gregor Schneider sorprende con
Doppelgarage, un’invogliante installazione che propone un garage, rigoroso fino alla peculiarità olfattiva, mentre l’attesa minimale e inaspettata di
Elmgreen & Dragset si confronta con la critica sociale dei concettuali
Ilya & Emilia Kabakov. Ma nella sala a fronte, la confusione diventa disorientante: l’installazione di
Hans Op de Beeck, composta da un grande modello
Accumulation e un video
Building interamente realizzato al computer, o il suggestivo
Tappeto volante di
Stalker insieme alla ricerca di
Jonh Bock, al confine tra performance e installazione, rimangono emarginati e privi di collegamento con la costruzione utopica di
Luca Pancrazzi, ingegnere di un micromondo sempre in frenetica attività, o con lo squilibrio di
Massimo Bartolini, che svolazza fino al soffitto per cercare qualche sorta di autonomia. Di conseguenza, se la mostra congettura una visione del futuro o almeno prova a individuare qualche traccia di ciò che sarà la città di domani, il risultato sembra evidenziarsi innanzitutto celato dietro le trappole di
Andreas Slominski o nell’evidente precarietà di
Valery Koshlyakov.
Così, nella città a venire si rivela una preoccupante confusione di idee, obiettivi e progetti, in un processo di sviluppo contraddittorio e ambivalente. Che potrebbe determinare la scomparsa fisica e mentale dell’uomo contemporaneo.
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attento che se continui così ti tirano le orecchie