Colori vibranti, positivi quelli che usa
Manuela Filiaci, pronti ad acquisire maggiore consapevolezza nello staccarsi dal neutro delle pareti. L’olio, alleggerito nel gioco di velature e trasparenze, perché molto diluito con l’acquaragia, sottolinea le potenzialità artistiche di ciò che appartiene al quotidiano, al facile uso e consumo. Un “
allestimento di quinte”: così Stefania Miscetti ha concepito l’apparato della nuova personale dell’artista vicentina -che da anni vive a New York-, ospitata più volte nella galleria romana.
I cartoni dei vini sono le prime opere che s’incontrano percorrendo l’ingresso. Oggetti bidimensionali che, per una serie d’incastri, sfidano tridimensionalità inaspettate, evocando nella forma i libri. Procedendo, è la volta dei rotoli di carta appesi al muro che si srotolano e di
The boxcase, un’anti-libreria affollata di scatole di cartone, dipinte una a una, a cui fanno eco altre scatole -altrettanto cromatiche- fuse nel bronzo, che al tatto producono suoni. Un lavoro nato negli anni ’80, questo delle scatole, nello studio che l’artista aveva allora nel quartiere newyorkese di Chelsea: “
Mi piace il legno e tutti i tipi di carta, in particolare il cartone, sia per il tipo di materia che per il suo colore naturale. Materiali che mi capita di raccogliere per strada, perché non butto via mai niente. Le scatole dipinte nascono così. Nel mio studio ne avevo parecchie e le avevo messe su una libreria. La definizione ‘boxcase’ la diede una mia amica che era venuta a trovarmi. Un’esclamazione che le uscì spontaneamente: ‘Oh, you’ve got a boxcase!’”.
In mostra, un’unica grande tela dove torna la volumetria di una scatola rossa proiettata verso l’esterno. È sospesa nel blu, come fluttuante, accanto alla presenza accennata di due alberi che procedono oltre i confini del quadro. Il titolo della personale,
Divagazioni, è estrapolato dall’Italo Calvino delle
Lezioni Americane, uno di quei libri che l’artista torna spesso a rileggere: “
La divagazione o digressione è una strategia per rinviare la conclusione, una moltiplicazione del tempo all’interno dell’opera, una fuga perpetua”. L’immersione nel lavoro è proprio quella “
strategia per rinviare la conclusione” di cui parla Calvino. Un lavoro che è anche gioco, scoperta, una sorta di free association: “
Quando inizio non so mai come andrà a finire. C’è sempre anche una dose di umorismo e teatralità e tanta perseveranza e pazienza”, spiega Filiaci.
A New York ha studiato alla School of Visual Arts nel periodo del minimalismo e del post-minimalismo, un’esperienza importante proprio come fu quella di aver respirato, negli anni ’80, l’atmosfera dell’East Village, prima che perdesse ogni spontaneità, diventando luogo di tendenza: “
Furono gli artisti dell’East Village a riportare l’attenzione sui problemi sociali, sulle difficoltà della vita. Lo fecero con grande vivacità. Ricordo quel periodo come straordinario. Ma durò poco. Le malattie prima, la speculazione immobiliare poi, segnarono la sua fine”.