“
Mi preme rilevare come l’arte sia certamente uno degli ambasciatori più qualificati per agevolare un dialogo tra popoli diversi, superare pregiudizi ed eliminare barriere”, ha dichiarato Ermanno Tedeschi, Presidente dell’Associazione degli Amici del Museo di Tel Aviv in Italia, oltre che gallerista.
Effettivamente, quando si entra nel salone centrale del Vittoriano, si rimane piacevolmente sorpresi nel notare che il 60esimo anniversario dello Stato di Israele ha festeggiato la sua ricorrenza con l’esposizione di circa cinquanta opere tra video, fotografie e dipinti, sottoponendosi all’inevitabile confronto con la contemporaneità artistica “occidentale”.
Dopo l’excursus centenario a Milano di Amnon Barzel e l’indagine curata da Arturo Schwarz a Torino,
As Is presenta l’
Arte Contemporanea Israeliana “così com’è”, talvolta libera dal rappresentare le immagini quotidiane di un popolo travagliato, vittima e carnefice di eterni conflitti bellici, e tal altra accondiscendente nel raccontarli.
Olio, stoffa, smalto e pellicola si esibiscono all’interno di un percorso molteplice, svincolato da un tema rappresentativo principale; ciò che conta è l’appartenenza al “luogo”, al popolo di Israele. Il complesso pellegrinaggio alla ricerca di un’identità sociale d’appartenenza è inaugurato dalla gigantesca proiezione di
Sigalit Landau,
DeadSea (2004), che mostra una ghirlanda serpentina di angurie galleggianti nel Mar Morto, dietro cui si lascia trascinare la stessa artista, quasi a dimostrazione di poter trovare una “via” salvifica in quelle acqua prive di vita.
Makom, il luogo, la “terra” israeliana, diviene il campo d’un fascinoso terrorismo per l’opera di
Merav Sudaey o di lutto realistico per la tela di
Nir Hod, i cui oli di
Gioventù Perduta (2003) rientrano appieno nell’iconografia mediatica occidentale. La storia della famiglia di
Vardi Kahana sfila invece lungo una delle ultime pareti, mostrando in bianco e nero la propria generazione ebraica e sfruttando la posa classica della ritrattistica fotografica come testimonianza di una realtà storiografica segnata da conflitti sociali, culturali e politici.
Ma ciò che stupisce sono soprattutto i colori che investono l’intera sala. A partire dal video di Sigalit Landau fino ai nastri adesivi di
Hila Karabelnikove in
Festa dell’Indipendenza (2006), si nota come un’arte così improbabile – dato il contesto in cui si è sviluppata – si avvicini nettamente alla “nostra”. Rinata nei primi anni ‘90 con orientali
cliché improntati all’esotismo neocoloniale, la gran parte della pittura israeliana si è a lungo limitata alla rappresentazione naturalistica dell’ambiente circostante, mentre oggi – grazie ai molteplici sconfinamenti in America e in Europa – dà paradossalmente prova di essere in grado di raccontarsi indipendentemente da ciò che la globalizzazione costruisce e incarna.
La mostra al Vittoriano, curata da Ruth Cats, esibisce un percorso rivelatore, atto a dimostrare che il popolo di Israele non è solo stretto fra terrorismo, vittimismo e aggressività, ma è anche artisticamente attivo. Al punto che “
il giardino dei limoni” può essere molto di più d’un pezzo di terra sacrificato per la salvaguardia politica; può essere il soggetto di una tela bandita dalla guerra, in cui si raccontano le vite di un’artista e del suo modo di esprimersi.