“Se sai che qui c’è una mano, allora ti concediamo tutto il resto”. Per parlare di Erwin Wurm partiamo da Ludwig Wittgenstein (Della certezza, elemento n. 1) non secondo un puro gusto mitteleuropeo -sia il filosofo che l’artista sono austriaci, anche se il secondo vive ormai diviso tra Vienna e New York- ma perché dichiarata è la connessione delle rispettive ricerche. Poco più che cinquantenne, Wurm rappresenta una figura esemplare di artista contemporaneo, estremamente lucido nella propria teoria e pratica operativa, quanto sfuggente alle classificazioni care agli entomologi dell’arte e, soprattutto, dotato di sovrana ironia. La definizione che dà di sé è quella di scultore, affermazione a prima vista sorprendente, quando si pensi che le sue celebrate one minutes sculptures corrispondono ad effimeri accadimenti più o meno controllati. Si tratta di happening-performance realizzate da soggetti scelti spesso per caso e forniti di scarne indicazioni di comportamento -del genere “appoggia i pennarelli sulla punta delle tue scarpe, mantienili in equilibrio per un minuto e pensa a René Descartes”– quindi ripresi nella loro azione (per farsi una prima idea dei risultati possibili è sufficiente recuperare il videoclip della canzone dei Red Hot Chili Peppers Can’t Stop, dove i musicisti hanno reso omaggio a Wurm infilandosi coscienziosamente matite nel naso o costruendo precari muri di cartone con grande divertimento).
In effetti, il concettualismo comico di Wurm (la definizione è di Stephanie Cash) costituisce un potente detonatore della solida nozione di scultura cui si è comunemente abituati: nozione che lo stesso concettualismo degli anni Sessanta, va pur detto, aveva già messo in discussione sin dalle sue fondamenta, infilandosi però presto in un canone di nuova accademia.
Il piglio dell’artista austriaco, lieve e irridente, riesce invece a partire da rigorosi principi teorici -in primo luogo l’analisi del senso comune svolta dal già citato Wittgenstein- per riformulare i rapporti tra l’elemento vivente e quello oggettuale. L’obiettivo, neppure troppo occulto, è di riumanizzare una forma d’arte, come la scultura, che a partire dalle avanguardie novecentesche si è sempre più distaccata dalla sua originaria funzione di mimesi corporea per astrarsi in una purezza formale algida quanto incomprensibile ai più.
Anche le altre linee di ricerca del lavoro di Wurm, a ben vedere, si raccordano verso il medesimo risultato di una riappropriazione giocosa (ma non per questo meno seria) della forma scultorea, operando una riedizione di quello spaesamento sistematico di surrealistica memoria, adatta alla superficiale profondità contemporanea, in primo luogo con il ricorso a un metodico straniamento percettivo.
Mostra tutto ciò con evidenza l’allestimento nel cortile del MACRO, dove l’attenzione dell’osservatore è rapita ora da un camioncino piegato sinuosamente ad elle e appoggiato ad una parete verticale, ora da una fat house, una casa dalla struttura flaccida e debordante che ospita all’interno uno spiritoso video, in cui è la casa stessa a parlare per interrogarsi sulla sua natura di opera d’arte (ponendo al contempo curiosi interrogativi conseguenti: se una casa cicciona è un’opera d’arte, lo è anche un uomo sovrappeso?).
Ironicamente irridente di forme e percezioni stabilite, ogni opera rappresenta dunque un’occasione di riflessione infine filosofica intorno alle strutture del senso comune su cui anche l’arte si regge.
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luca arnaudo
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complimenti....bella mostra!
sì.
peccato che il 28 maggio non c'era piu' l'allestimento!!!