Le superfici ordinarie, intese come le superfici che nella vita quotidiana siamo abituati a osservare, hanno abitualmente due facce, per cui è sempre possibile percorrere idealmente uno dei due lati senza mai raggiungere il secondo. Nel caso del nastro di Möbius, invece, tale principio viene capovolto, poiché possiede un solo lato e un solo bordo.
Se, grazie alle opere di
Escher, l’enigmatica “striscia” è diventata un’icona dell’arte, le implicazioni simboliche e filosofiche vanno notevolmente oltre gli interessanti enigmi presentati per le sue equazioni. Una bellezza matematica basata su una superficie “sviluppabile” in cui non esistono partenze né traguardi, ma soltanto un percorso, un tragitto che si deve intraprendere, consapevoli dell’assoluta mancanza di obiettivi o scopi precisi.
In questo senso, la mostra romana presenta un viaggio senza destinazione, discordante con qualunque consuetudine, attraverso l’itinerario fisico o immaginario intrapreso dai tre artisti presentati.
Angelo Bellobono (Nettuno, Roma, 1964; vive a Roma) propone una serie di ritratti rubati durante la sua permanenza a New York, con protagonisti anonimi in cerca della propria ombra, assoggettati nell’avvilita quotidianità, istantanee di un viaggio in velocità dove “
ogni personaggio è schiavo del proprio percorso”, come evidenzia la curatrice Micòl di Veroli.
Fernanda Veron (Necochea, 1978; vive a Roma) parte per un viaggio senza bussola, tutelata da una titubante barchetta di carta, che tende a smarrirsi nei confini tra l’interno della coscienza e l’esterno di un mondo inesauribile, dove non ci sono frontiere fisiche né restrizioni alle chimere. Un racconto di un’opera in tre atti in versione cinematografica, attraverso una sequenza di scatti che, partendo da una visione generale, si racchiude gradualmente fino a concentrarsi nel più futile dettaglio per trovare la propria strada.
Infine,
Inés Fontenla (Buenos Aires; vive a Roma) presenta un video e diverse fotografie per dare vita a un viaggio sulla storia, una sorta di epopea futurista in cui si narra la prodezza immaginaria di un eroe ignoto che distrugge metaforicamente tutta la civiltà occidentale. Un essere ciclopico frantuma una città anonima, ma simbolicamente personificata attraverso l’architettura classica dei palazzi, come sede della ragione, la religione, la filosofia e la storia dell’occidente, che viene in questo modo annichilito.
Così, la rappresentazione di un mondo compendiato attraverso alcuni individui trovati in un viaggio reale, una rotta fisica e immaginaria su una timida barchetta di carta e una storia per distruggere le istituzioni si mescolano per scoprire e analizzare entrambi i lati della nostra realtà: l’intimismo e la superficialità, l’esterno empirico e l’interno della coscienza, le utopie e la quotidianità. In un viaggio travolgente e irrefrenabile, senza inizio né fine.