Se si conviene con un’idea di arte come vettore di movimento spirituale, sarà difficile non riconoscere l’importanza avuta dalla pittura astratta nel percorso in tal senso coperto a partire dal primo Novecento (salva, naturalmente, la costante possibilità di assistere a rovinosi fuoristrada). Ruolo e portata dell’astrazione al riguardo sono stati argomento prediletto della filosofia prima ancora che della critica d’arte, e non è dunque un caso che dell’opera di
Sean Scully (Dublino, 1945; vive a New York e Barcellona) si siano occupati con tanto trasporto filosofi come Arthur C. Danto e David Carrier.
Scully, in effetti, rappresenta una delle più elevate e riconosciute ridefinizioni -per usare la felice espressione coniata anni fa da Demetrio Paparoni- dell’astrazione, attorno a cui l’artista ha lavorato costantemente negli ultimi quarant’anni, come la mostra ora in discorso ben rappresenta.
Riunite in uno spazio quale quello dell’ex mattatoio romano, obiettivamente confacente all’esposizione per il contrasto tra nitore espositivo e ruvidità delle strutture in ghisa preservate al suo interno, oltre trenta opere tra cui molte tele di grande formato consentono di ripercorrere lo svolgersi di Scully da un iniziale impianto di fredda marca minimalista (si vedano lavori come
Brennus o
Fort #3, risalenti agli anni ‘70 e chiaramente debitori verso la lezione di
Frank Stella) fino alle ultime celebrazioni dei fasti del colore nelle sue più diverse gradazioni emozionali.
Dopo lo snodo rappresentato da opere dei primi anni ‘80 quali
Backs and Fronts, dove il colore prende a tendersi per linee dagli accostamenti più ariosi, appare in effetti evidente la progressiva conquista di coinvolgenti profondità cromatiche, scandagliate negli accostamenti di soffuse masse rettangolari e con il ricorso plateale a velature stese per ampie campiture (la critica usa al solito rimandare a
Morandi e
Rothko: segnaliamo la facile banalità per dovere di cronaca).
Quando si giunge alla serie
Wall of light o a opere quali
Sea Wall, tutte degli anni duemila, la materia pittorica della superficie vibra ormai in risonanza con i fondi lasciati intravedere lungo bordi sempre meno controllati dalla geometria euclidea, come a estrarre gli armonici di una composizione visivamente musicale (salvo il ritorno frequente, quale nota personale di fondo, a una certa melanconica cupezza).
Scully, a quel che si sa, impiega raffinati pigmenti a olio stesi con dozzinali pennellesse comprate all’ingrosso: azzardiamo sia forse in questo contrasto fra tersa ricchezza e ruvidità della materia che l’arte del pittore abbia trovato un fattore importante della formula per divenire, secondo il suo stesso pensiero, “
fisica e altamente strutturata, ma non con le strutture della ragione. È la struttura del sentimento”. Ancora, tali elementi si combinano in un’esecuzione all’apparenza estemporanea, come gli stessi titoli delle opere (si veda in particolare la mirabile serie di pastelli su carta) lasciano intendere nel loro richiamare isolate date, orari e luoghi.
A ogni modo, vale più di tutto un altro giudizio ancora dello stesso Scully -pittore-filosofo come pochi altri e alla cui produzione teorica è un peccato che la mostra non abbia riconosciuto maggior spazio- secondo cui “
dentro un’unica opera coesistono verità diverse in competizione per il dominio”. Una competizione quasi sempre di ammirevole intensità.