A distanza di tre anni dalla sua precedente personale,
Elger Esser (Stoccarda, 1967; vive a Düsseldorf) torna nella storica galleria romana per presentare una serie di opere che celebrano – sontuosamente, senza sorprese – il suo stile inconfondibile, quello di uno dei pochi fotografi delle ultime generazioni a esser riuscito nell’impresa di assumere una statura iconografica assolutamente definita, spirante un’aura di romantica classicità.
A parlare di stile viene in mente la tersa definizione datane da Herbert Read, cioè “
la sintassi o l’ordine che l’artista dà alla sua visione”, la fusione di tutti gli elementi “
in una percezione completa dell’essenza interiore delle cose”. Date tali premesse, dalla rassegna delle opere in mostra emerge in primo luogo la peculiare sintassi delle vedute, di grandi dimensioni, dove l’elemento acqueo domina in sordina (spesso si tratta di specchi portuali o scorci di costa, intravisioni, per così dire, del mare aperto), mentre la visione vive di una distintiva sospensione lattiginosa nei colori, consegnata ad atmosfere sognanti che aspirano senza riserve all’atemporalità.
Quanto all’essenza delle cose affermata negli scatti, pare corrispondere a un sentimento panico del paesaggio filtrante attraverso un accumulo poderoso di riferimenti culturali, tratti non solo dalle arti visive (basti pensare alla dichiarata passione di Esser per Proust). Ed è forse a partire da tale considerazione che si può pure apprezzare la sintesi riuscita all’artista fra il suo personale sud dell’anima (l’infanzia trascorsa a Roma, il prediletto meridione della Francia) e il nord della scuola di
Bernd e Hilla Becher, di cui è stato allievo.
La strategia è suggestiva, ma pure pericolosa nella misura in cui tende più o meno inconsciamente alla ripresa di un pittoresco
à la William Gilpin – ovvero il ricercare nella natura ciò che più si adatta a un’idea predefinita, già “incorniciata” della stessa – che può giungere infine a scadere nel kitsch. Non è questo il caso di Esser, beninteso, il quale nella mostra in discorso offre una prova superba di controllo espressivo, ma una critica responsabile deve pur comprendere la messa in guardia verso quei sintomi d’
impasse che s’intendano eventualmente in un’opera.
Al proposito, viene da pensare soprattutto alla pratica inaugurata da Esser di rifotografare e ritoccare vedute marine da vecchie cartoline d’inizio Novecento. La
Honfleur presentata in galleria è in tal senso significativa, poiché mentre avvolge il visitatore in un accogliente alone ambrato di nostalgia, disturba al contempo per il rischio sottile che, ad avvicinarsi troppo, esali dello stantio e, in conclusione, della falsa coscienza storica tipica di ninnoli e crine.
Fino a quel momento, in ogni caso, non si può che apprezzare il piacere di simili passeggiate sul molo, e invitare a fare altrettanto.