Il titolo della serie -come d’abitudine- è determinato dai materiali con cui Vik Muniz ha dato corpo alle immagini da fotografare, mentre ciascuna stampa porta il nome proprio del personaggio effigiato. I dieci grandi ritratti sono l’assemblaggio di coriandoli ritagliati da riviste e incollati l’uno sull’altro fino a formare il volto di uomini e donne brasiliani, alcuni dei quali ben noti al pubblico (Lula, Pelè, lo scrittore Ribeiro). Il taglio è quello classico del ritratto fotografico, un mezzo busto sorridente che si staglia su un fondo bianco da studio; i tratti e le espressioni vengono ripresi con cura, espressi dalle linee tremolanti dei frammenti di carta: enormi e variopinti pixel che frangono di continuo la stabilità della figura e del colore.
I tasselli tuttavia non si inseriscono nella griglia ordinata e immutabile della scomposizione digitale o del retino fotomeccanico, sono premuti da un’immaterialità sottesa, affrancati irrevocabilmente dalla prosaicità della stampa dozzinale da cui derivano.
Come per lo zucchero e i chiodi che componevano precedenti lavori dell’artista (Sugar Children 1996, Beggars, after Rembrandt, 2001), non sembra che l’interesse prevalente sia quello per il carattere quotidiano dei materiali, ancora una volta protagonisti dell’opera e allo stesso tempo garanti della sua completa autonomia dal dato reale dal referente esterno. Polvere e filo sono il supporto che per un attimo, per una sorta di necessaria epifania terrena, incarna la cosa trovata, affinché questa possa raggiungere il suo spazio ideale, nel divario incolmabile tra la cosa e il riflesso.
Fino a questa serie c’era ancora un tratto, qualcosa, che teneva insieme il dato di partenza all’immagine finale: Muniz lo ha spezzato con una riflessione serrata sulla copia dell’opera d’arte.
Partendo dalla Medusa apparsa su un piatto di spaghetti alla marinara, dalla doppia Gioconda di Warhol, liberatasi con garbo dalla traccia in bianco e nero (parente stretta del Buster Keaton, icona d’inchiostro lucida e sontuosa che aggiorna quelle di Lichtenstein), con Pictures of Earthworks (2002) il fotografo si rivolge alle
Con le Pictures of Magazine Muniz torna a plasmare la più tradizionale delle forme, le sembianze del volto umano, adoperando solo immagini liberate dalla originaria destinazione d’uso, dalla tecnica e dal mezzo, dai veicoli di diffusione, dalle modalità e condizioni di ricezione, senza che nessuno di questi elementi scompaia. Il risultato è lo sguardo divinamente benevolo degli eroi del nuovo Brasile, per una volta al sicuro dalla minaccia del Doppio.
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