“Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.”
C’è una poesia di Jalaluddin Rumi che recita così, poche parole, semplici. Di fondo un’idea molto concreta, densa, forte. Può esistere davvero una dimensione in cui l’umana capacità di discernimento tra ciò che è corretto e ciò che è errato, spesso intrisa di sovrastruttura sociali, economiche e politiche, può essere messa da parte per lasciare posto al semplice principio di umanità?
Questi versi tornano più volte alla mente mentre ci si approccia all’ultimo progetto dell’artista libanese Akram Zaatari ospitato negli spazi dell’Accademia Britannica a Roma fino al 4 marzo.
La mostra, a cura di Marina Engel, si inserisce nel programma FRAGMENTS, che vedrà alternarsi fino al prossimo giugno 2017 diverse testimonianze centrata sul tema del frammento, della traccia, costantemente intrisi di memoria e dunque in grado di ricostruire le singole identità personali, specialmente in zone di conflitto. Nel caso di Zaatari i frammenti sono quei ricordi che, immancabilmente, prendono sostanza materica, fisicamente tangibile. Voci che, come si evince bene dal titolo, si sviluppano e si sovrappongono, andando a costruire una serie di strati nella storia, di cui nel presente si può studiare un’archeologia. Quello che colpisce nell’intervento dell’artista è il punto di vista, il tentativo – ricercato e delicatissimo – di raccontare un conflitto storico-politico prima di tutto come vicenda umana, di far parlare nel presente testimoni che possano raccontare, con nuovi occhi, un passato doloroso. Vicende di vita vissuta – in primis dallo stesso artista e dalla sua famiglia – che legano indissolubilmente persone diverse in epoche diverse.
In Letter to a Refusing Pilot (2013), Zaatari ricostruisce la vicenda di un pilota israeliano che nel 1982, durante il conflitto libanese, si rifiutò di bombardare una scuola nella città di Saida, che diede i natali allo stesso artista. Dati i suoi studi architettonici pregressi, questi riconobbe nell’area da colpire un luogo sensibile come poteva essere un ospedale o una scuola e decise di far scoppiare l’ordigno in mare. L’edificio, di cui il padre di Zaatari fu direttore, fu ugualmente bombardato a qualche ora di distanza da un secondo pilota.
L’episodio, seppur ricostruito attraverso immagini d’archivio ed essendo presente nell’audio di un aereo in avvicinamento o nel fragore delle onde che ne ricalcano l’esplosione nel presente, è consegnato nei gesti e negli sguardi di giovani ragazzi che somigliano all’artista che, all’epoca dei fatti, aveva appena sedici anni. Ecco allora che un nastro può riprodurre anche la melodia di una vecchia canzone oltre che la violenza di una guerra; un rullino fotografico può raccontare le macerie del passato e provare a riscrivere il presente; una campanella che fa entrare ordinati – o correre via veloci – un gruppo di studenti basta a trasmettere l’identità di una scuola; un vecchio pezzo di giornale può ricostruire una storia personale; un aeroplano di carta può arrivare lontano, fino a un uomo che ha deciso di disertare un dovere politico per essere, prima di tutto, umano.
La voce di Akram Zaatari si mischia con quella del passato, coinvolgendo persone che non ha mai conosciuto direttamente, come Ali, il protagonista di In This House (2005), soldato libanese che occupò insieme ad altri l’abitazione della famiglia Dagher, costretta ad abbandonare la propria casa fino alla fine del conflitto nel 1991. Il frammento di Ali fu una lettera, scritta alla famiglia per dare loro il bentornato a casa, nascosta nel mortaio di un B-10 e seppellito in giardino. L’artista, nell’atto di ricercare questo ricordo e dunque nel far fisicamente scavare la terra per completare la ricerca, dissotterra simbolicamente le anse di una storia dolorosa, fatta di tante piccole storie personali.
Storie ricostruite attraverso l’archeologia delle macerie, che poi sono lettere, ricordi, oggetti, voci che non hanno voce reale, non fisica, non udibile se non nella loro trasposizione materiale che le rende forti e trasmissibili, aggressive e vincenti sul silenzio che la Storia, a volte, vuole restituire al tempo.
Al di là del concetto di giusto e sbagliato esiste quel luogo dove la realtà non è rappresentabile, un po’ come l’illustrazione del Piccolo Principe citata da Zaatari nel primo video.
Dove la realtà è invisibile, un’archeologia di voci.
Alessandra Caldarelli
mostra visitata il 20 febbraio 2016
Dal 12 febbraio al 4 marzo 2016
Akram Zaatari, The Archaeology of Rumour
British School at Rome
Via Antonio Gramsci, 61 – Roma
Orari: martedì – sabato 13.00 – 18.00