Secondo atto dello spettacolo estivo che coinvolge la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Villa d’Este a Tivoli. Dopo il primo appuntamento, Sculture in Villa, dell’anno scorso, è il turno della scultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Sono presenti tre generazioni con oltre quaranta artisti a confronto in un periodo cruciale per lo sviluppo dell’arte italiana, iniziando dagli ultimi residui del fenomeno informale fino a giungere alla maturazione delle più radicali innovazioni linguistiche. Decadi in cui il dilemma tra le due e le tre dimensioni e il problema del rapporto tra piano e volume segnano una chiara impostazione di rottura con qualsiasi tradizione figurativa, riducendo i fondamenti artistici al proprio azzeramento. Una vetrina che racconta una particolare vicenda di “collezionismo di Stato” di cui Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale dal ‘41 al ‘74, fu protagonista indiscussa nel secondo dopoguerra.
Il complesso allestimento è riuscito nel distanziare i lavori dal contesto –fortemente connotato-, ma risultano sacrificati i necessari intervalli tra le opere, che in certe occasioni stentano a respirare. Il percorso si snoda su diverse isole poetiche, senza tematiche fisse. Iniziando dalla contaminazione tra pittura e scultura nella prima sala, dove la monumentale Cornice di Cesare Tacchi e le estroflessioni di Agostino Bonalumi giocano con la proiezione tridimensionale della pittura. Proseguendo si assiste ad un abbozzo di dialogo tra la tensione esistenziale di Gilberto Zorio, la superficie lacerata di Alberto Burri e la continuità tra opera e ambiente di Francesco Lo Savio. Dialogo che viene poi completamente trascurato nel caso della sovrastante Sfera di Arnaldo Pomodoro e le 30 aste di Sergio Lombardo, la cui libera fruizione viene sfortunatamente limitata.
La poetica interattiva, invece, si incarna nei lavori in acciaio che giocano con la percezione dello spettatore, come le sculture parlanti di Attilio Pierelli, dotate di un meccanismo sensibile alle variazioni della luce. Nella sala dedicata alla distruzione della materia, invece, Pietro Consagra schiaccia il bronzo fino a renderlo bidimensionale. E di fronte si rivela spettacolare l’ombra sagomata di Mario Ceroli, la cui Ultima Cena è ubicata coscienziosamente nella cappella della Villa, o il fiume con foce tripla di Pino Pascali, che scorre lungo uno stretto corridoio giocando sulla dialettica tra natura e artificio. A conclusione del percorso interno, un’intera sala -forse risparmiabile- è riservata a Gino Marotta che ha fatto dei materiali industriali come il metacrilato colorato il suo marchio personale.
Per quanto riguarda l’esterno della villa, una serie di lavori “che mai potrebbero star vicini in un ambiente chiuso, ma che trovano un elemento spaziale comune nell’estensione aperta, indefinita del giardino” (Palma Bucarelli) sono distribuiti arbitrariamente. Tra gli altri, spiccano: l’astratta Foresta pietrificata di Pasquale Ninì Santoro, gli ingombranti moduli sovrapposti di Nicola Carrino e la Struttura oscillante di Carlo Lorenzetti, ma soprattutto lo scattante serpente giallo di Eliseo Mattiacci che si contorce sul prato verde danzando con il vento.
Una mostra estiva da visitare, ma con qualche assenza importante -causata da moventi conservativi- che impedisce una compiuta rappresentazione del panorama artistico di quegli anni destinata al grande pubblico. E con diverse presenze -a volte persino ripetute- legittimate da Palma Bucarelli in veste istituzionale e da Giulio Carlo Argan dal punto di vista critico, che dovrebbero essere riconsiderate alla luce del XXI secolo, in modo da enfatizzare la valenza e la notorietà di alcuni e ridimensionare quella di altri.
angel moya garcia
mostra visitata il 14 giugno 2007
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non capisco il "risparmiabile" relativo alla sala dedicata a Gino Marotta, uno dei più importanti "artisti" italiani.