In fondo Edouard Manet (1832 – 1882) è un problema. Parigino fino al midollo, dandy raffinato, artista colto. E contraddittorio. Perché dipinge la vita moderna e cita l’arte classica, perché scandalizza (ben consapevole di farlo) gli accademici ed espone al Salon, che dell’arte comme il faut è da sempre la sede eccellente. Poi ci sono Monet, Renoir, Pissaro e tutti gli altri: amici e compagni d’avventura, certamente, eppure Manet non parteciperà a nessuna delle otto mostre degli impressionisti, preferendo –a rischio del rifiuto- la via consacrata all’arte ufficiale, perché –sostiene- lì sta “il vero campo di battaglia. È lì che bisogna misurarsi”. Un outsider, quindi: intelligente, arguto, orgoglioso. Ostico, per principio.
Una mostra su Manet non s’allestisce solo a suon di capolavori, è una sfida difficile, ci vuole una mano ferma e idee chiare. Così la mostra del Vittoriano funziona, con sorprendente semplicità: capolavori pochi, uno per tutti l’ipnotico, straordinario ritratto della creola Jeanne Duval (1862) e la scelta, non scontata, di dedicare molto spazio alle incisioni, da leggere come cartina al tornasole dell’abilità virtuosistica dell’artista.
Manet ama l’arte spagnola: Murillo, Velàzquez, Goya, da loro impara le atmosfere vibranti, il tratto nervoso, il nero denso, che diventerà una sorta di cifra ricorrente della sua opera. E’ di un nero insondabile il fondo che serra il corpo di madreperla della Sultana (datata intorno alla prima metà degli anni sessanta del XIX secolo), è un nero vellutato quello che avvolge l’Amazzone (1870) e che tinge lo sguardo penetrante di Berthe Morisot, amica, artista e poi cognata, protagonista di tanti quadri dell’artista e qui ritratta in una litografia datata tra il 1872 e il 1874.
La vita moderna preme nei quadri di Manet come un’esigenza cui è impossibile sottrarsi: sfilano scene di boulevards (da vedere, per esempio la piccola Rue Mosnier, del 1878, dal taglio inedito), amici e amiche, che poi sono personaggi di spicco della Parigi dell’epoca. Da Marcellin Desboutins, dipinto nel 1875, a Méry Laurent, musa di Mallarmé, che si staglia contro un fondo di stoffa azzurra fiorata. Fare il vero e lasciar parlare dice Manet. E non verrà mai meno a quel motto.
Una sorpresa sono le piccole nature morte degli anni Ottanta, per lo più concepite come una sorta di dono affettuoso per gli amici: come le Pesche, saggio di una pittura ineccepibile, che fonde reminiscenze antiche ed echi contemporanei. Sul filo di quella peculiare, arguta intelligenza che è caratteristica inimitabile di Manet.
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Grazie per aver inserito nei suggerimenti editoriali su Manet il testo di Gribaudo: l'ho curato io!