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La personale di Alessandra Rosini (Roma, 1979) dal titolo Where’s
my crown?
difficilmente può conquistare a una prima, superficiale visita. Il disagio, la
diffidenza, una sorta di sotterraneo fastidio dominano infatti la scena non
appena si entra nello spazio espositivo. Del resto, cosa lega la pandemia e
l’ipocondria – concetti attorno ai quali si è costruita questa mostra – se non
il malessere?
Rosini compie un giro
a 360 gradi intorno alle fobie private e collettive che dominano la nostra
società (malattie, calamità naturali, guerre) e che ci rendono ciechi. E
l’esperienza artistica non è nient’altro che un modo per esorcizzarle, per
convincerci della nostra attitudine all’autosufficienza. Ciò che a prima vista,
all’ingresso della galleria, sembra una parete formata da tanti piccoli vetri,
è in realtà un insieme di cartelle cliniche celate allo sguardo: i fogli sono
referti medici raccolti dal 1998 al 2009 e coperti da una patina argentata che,
se rimossa – come se fosse un “gratta e vinci” – ne rivelerebbe il contenuto.
La seconda installazione, denominata Hz, è collocata nella sala
sottostante ed è prettamente sonora: lo spazio e la materia – un giradischi
posto in un angolo – sono un’appendice, un mezzo attraverso il quale si esprime
la melodia. Una melodia a tratti dissonante, che il giradischi certo non
diffonde per intrattenere, né per consolare.
Al contrario, la musica rimanda
concretamente alla morte e alla paura a essa collegata: realizzato con suoni
che l’artista ha ricavato da precisi calcoli matematici, questo lento incedere
di note, infatti, nasconde in sé le cause e il numero dei decessi segnalati
dalla World Health Organization nel 2001. Ma dopo 7 minuti tutto piomba di
nuovo in un cupo silenzio, fino a quando qualcuno non vorrà interromperlo: ed è
proprio il visitatore a dover muovere di nuovo il braccio del giradischi per
riascoltare la melodia.
Il cerchio delirante e serissimo descritto dall’artista si
chiude con l’ultima sala, in cui un video mostra due attrici impegnate a pulire
un vetro e a respirarci sopra. Gesti disadorni, naturali, che hanno però esiti
differenti: se da una parte il vetro si appanna con il respiro, dall’altra
resta puro, immutabilmente trasparente. Quest’assenza che si contrappone alla
presenza si reitera senza sosta, sottolineando – proprio con la forza
dell’estrema semplicità che caratterizza le azioni del video – la natura stessa
dell’essere umano, da sempre diviso tra la fatica del vivere e la volontà di
autoaffermazione (o sopraffazione?).
Alla fine della mostra, tutto acquista – anche se, va
detto, non senza una certa fatica – il suo senso più proprio. Gli incubi più
personali di Rosini sfociano all’esterno, coinvolgendo suo malgrado anche il
visitatore.
my crown?
difficilmente può conquistare a una prima, superficiale visita. Il disagio, la
diffidenza, una sorta di sotterraneo fastidio dominano infatti la scena non
appena si entra nello spazio espositivo. Del resto, cosa lega la pandemia e
l’ipocondria – concetti attorno ai quali si è costruita questa mostra – se non
il malessere?
Rosini compie un giro
a 360 gradi intorno alle fobie private e collettive che dominano la nostra
società (malattie, calamità naturali, guerre) e che ci rendono ciechi. E
l’esperienza artistica non è nient’altro che un modo per esorcizzarle, per
convincerci della nostra attitudine all’autosufficienza. Ciò che a prima vista,
all’ingresso della galleria, sembra una parete formata da tanti piccoli vetri,
è in realtà un insieme di cartelle cliniche celate allo sguardo: i fogli sono
referti medici raccolti dal 1998 al 2009 e coperti da una patina argentata che,
se rimossa – come se fosse un “gratta e vinci” – ne rivelerebbe il contenuto.
La seconda installazione, denominata Hz, è collocata nella sala
sottostante ed è prettamente sonora: lo spazio e la materia – un giradischi
posto in un angolo – sono un’appendice, un mezzo attraverso il quale si esprime
la melodia. Una melodia a tratti dissonante, che il giradischi certo non
diffonde per intrattenere, né per consolare.
Al contrario, la musica rimanda
concretamente alla morte e alla paura a essa collegata: realizzato con suoni
che l’artista ha ricavato da precisi calcoli matematici, questo lento incedere
di note, infatti, nasconde in sé le cause e il numero dei decessi segnalati
dalla World Health Organization nel 2001. Ma dopo 7 minuti tutto piomba di
nuovo in un cupo silenzio, fino a quando qualcuno non vorrà interromperlo: ed è
proprio il visitatore a dover muovere di nuovo il braccio del giradischi per
riascoltare la melodia.
Il cerchio delirante e serissimo descritto dall’artista si
chiude con l’ultima sala, in cui un video mostra due attrici impegnate a pulire
un vetro e a respirarci sopra. Gesti disadorni, naturali, che hanno però esiti
differenti: se da una parte il vetro si appanna con il respiro, dall’altra
resta puro, immutabilmente trasparente. Quest’assenza che si contrappone alla
presenza si reitera senza sosta, sottolineando – proprio con la forza
dell’estrema semplicità che caratterizza le azioni del video – la natura stessa
dell’essere umano, da sempre diviso tra la fatica del vivere e la volontà di
autoaffermazione (o sopraffazione?).
Alla fine della mostra, tutto acquista – anche se, va
detto, non senza una certa fatica – il suo senso più proprio. Gli incubi più
personali di Rosini sfociano all’esterno, coinvolgendo suo malgrado anche il
visitatore.
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2010
Alessandra
Rosini – Where’s my crown
a cura di Alessandro Facente
Changing
Role
Vicolo del Bollo, 13 (zona campo de’ Fiori) – 00186 Roma
Orario: da martedì a venerdì ore 16-20
Ingresso libero
Info: tel. +39 0683507085; infogallery@changingrole.com;
www.changingrole.com
[exibart]