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10
giugno 2010
fino al 5.IX.2010 Philip Guston Roma, Museo Bilotti
roma
Antiche pietre come volumi umanizzati dai contorni morbidi. Alberi dal profilo architettonico. Il fondo è sempre una stesura tendenzialmente monocroma. Dominano i toni del rosa...
Se
all’apparenza la visione d’insieme di Roma è armoniosa – complice l’utilizzo di un vocabolario che attinge
dall’arte del fumetto – avvicinandosi alle singole opere si è investiti da una
profonda inquietudine.
Il
pittore, l’americano Philip Guston
(Montréal, 1913 – Woodstock, 1980), è un acclamato protagonista della Scuola di
New York. In questa serie, esposta per la prima volta nel suo insieme al Museo
Carlo Bilotti (la seconda tappa sarà la Phillips Collection di Washington), il
linguaggio conferma l’abbandono dell’astrazione per il ritorno a un figurativo
popolato di citazioni autoreferenziali.
Era
la terza volta che Guston tornava nella Città Eterna, dopo quel primo soggiorno
nel 1948-49 come borsista all’American Academy, avendo vinto il Prix de Rome;
poi nel 1960 (faceva parte degli artisti del Padiglione americano alla Biennale
di Venezia), infine nel 1970-71.
È
cosa nota – lo conferma anche il curatore, Peter Benson Miller – che i dipinti
della serie Roma, se da un lato
sono il frutto di un dialogo complesso fra l’autore e i maestri italiani (Pantheon è un po’ la sintesi dell’omaggio a Masaccio, Piero della Francesca, Giotto, Tiepolo e Giorgio
de Chirico, tutti nominati sulla
tela, accanto a un’opera bianca su un cavalletto e a una lampadina elettrica),
dall’altra trasuda il vissuto personale dello stesso Guston, all’indomani della
sua personale alla Marlborugh Gallery di New York, nell’ottobre 1970.
La
mostra fu stroncata dalla critica americana per vari motivi; il più esplicito
era proprio l’abbandono dell’astrazione a favore di una rappresentazione
fondamentalmente allegorica, in cui c’era una presa di posizione dell’autore –
nel suo ruolo di artista – nei confronti della realtà sociale e politica
contemporanea. Guston, in particolare, recupera un soggetto che appartiene al
suo stesso repertorio figurativo degli anni ‘30 – le figure incappucciate che
rimandano al Ku Klux Klan – accentuandone l’aspetto caricaturale e portandole
nel quotidiano. Un quotidiano – non dimentichiamo – piuttosto violento e
aggressivo, quello della fine degli anni ‘60, segnato da episodi drammatici che
includono le proteste dell’African-American Civil Rights Movement, quelle
contro la guerra in Vietnam, l’assassinio di Robert Kennedy e di Martin Luther
King.
Anche
a Roma – erano gli anni di piombo – il clima era abbastanza teso, come annota
più volte la moglie di Guston, la poetessa Musa McKim nel suo diario: non solo
passeggiate romane, gite a Ostia e Cerveteri, cene con i numerosi amici
artisti, tra cui Toti Scialoja,
anche striscioni, slogan e manifestazioni studentesche.
Ecco
allora “incappucciati” che si aggirano fra le antiche pietre, scarpe dalle suole
chiodate, pezzi di carne. “Enigmi”,
li definisce Dore Ashton, la più importante critica e storica
dell’Espressionismo Astratto americano, amica di vecchia data ed esperta del
lavoro di Guston. E afferma: “Persino i suoi primi e idiosincratici modi di
rappresentare oggetti, persone e arredi, gli uni contigui agli altri, rivelano
il suo tic dell’analogia. La sensazione di… sì, di propinquità, è una delle
sue peculiarità e certamente caratterizza la sua sofisticata concezione dello
spazio pittorico”.
all’apparenza la visione d’insieme di Roma è armoniosa – complice l’utilizzo di un vocabolario che attinge
dall’arte del fumetto – avvicinandosi alle singole opere si è investiti da una
profonda inquietudine.
Il
pittore, l’americano Philip Guston
(Montréal, 1913 – Woodstock, 1980), è un acclamato protagonista della Scuola di
New York. In questa serie, esposta per la prima volta nel suo insieme al Museo
Carlo Bilotti (la seconda tappa sarà la Phillips Collection di Washington), il
linguaggio conferma l’abbandono dell’astrazione per il ritorno a un figurativo
popolato di citazioni autoreferenziali.
Era
la terza volta che Guston tornava nella Città Eterna, dopo quel primo soggiorno
nel 1948-49 come borsista all’American Academy, avendo vinto il Prix de Rome;
poi nel 1960 (faceva parte degli artisti del Padiglione americano alla Biennale
di Venezia), infine nel 1970-71.
È
cosa nota – lo conferma anche il curatore, Peter Benson Miller – che i dipinti
della serie Roma, se da un lato
sono il frutto di un dialogo complesso fra l’autore e i maestri italiani (Pantheon è un po’ la sintesi dell’omaggio a Masaccio, Piero della Francesca, Giotto, Tiepolo e Giorgio
de Chirico, tutti nominati sulla
tela, accanto a un’opera bianca su un cavalletto e a una lampadina elettrica),
dall’altra trasuda il vissuto personale dello stesso Guston, all’indomani della
sua personale alla Marlborugh Gallery di New York, nell’ottobre 1970.
La
mostra fu stroncata dalla critica americana per vari motivi; il più esplicito
era proprio l’abbandono dell’astrazione a favore di una rappresentazione
fondamentalmente allegorica, in cui c’era una presa di posizione dell’autore –
nel suo ruolo di artista – nei confronti della realtà sociale e politica
contemporanea. Guston, in particolare, recupera un soggetto che appartiene al
suo stesso repertorio figurativo degli anni ‘30 – le figure incappucciate che
rimandano al Ku Klux Klan – accentuandone l’aspetto caricaturale e portandole
nel quotidiano. Un quotidiano – non dimentichiamo – piuttosto violento e
aggressivo, quello della fine degli anni ‘60, segnato da episodi drammatici che
includono le proteste dell’African-American Civil Rights Movement, quelle
contro la guerra in Vietnam, l’assassinio di Robert Kennedy e di Martin Luther
King.
Anche
a Roma – erano gli anni di piombo – il clima era abbastanza teso, come annota
più volte la moglie di Guston, la poetessa Musa McKim nel suo diario: non solo
passeggiate romane, gite a Ostia e Cerveteri, cene con i numerosi amici
artisti, tra cui Toti Scialoja,
anche striscioni, slogan e manifestazioni studentesche.
Ecco
allora “incappucciati” che si aggirano fra le antiche pietre, scarpe dalle suole
chiodate, pezzi di carne. “Enigmi”,
li definisce Dore Ashton, la più importante critica e storica
dell’Espressionismo Astratto americano, amica di vecchia data ed esperta del
lavoro di Guston. E afferma: “Persino i suoi primi e idiosincratici modi di
rappresentare oggetti, persone e arredi, gli uni contigui agli altri, rivelano
il suo tic dell’analogia. La sensazione di… sì, di propinquità, è una delle
sue peculiarità e certamente caratterizza la sua sofisticata concezione dello
spazio pittorico”.
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e Morton Feldman
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a Rivoli
manuela
de leonardis
mostra
visitata il 4 giugno 2010
dal
25 maggio al 5 settembre 2010
Philip
Guston – Roma
a
cura di Peter Benson Miller
Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa
Borghese
Viale Fiorello La
Guardia, 4 – 00197 Roma
Orario: da martedì a
domenica ore 9-19 (la biglietteria chiude mezz’ora prima)
Ingresso: intero €
6; ridotto € 4
Catalogo Hatje Cantz
Info:
tel. +39 060608; museo.bilotti@comune.roma.it; www.museocarlobilotti.it
[exibart]