Un’arte intrisa di silenzi, di voci messe a tacere, di oggetti spogliati dalla loro ragione d’essere e offerti nudi agli spettatori.
Giorgio de Chirico sostiene di voler creare una realtà che non ha nulla a che vedere con la storia, con il mondo reale, eppure rappresenta città identificabili nei monumenti, nei luoghi. Il silenzio ben racconta uno stato d’animo, il desiderio dell’artista di rinnovarsi, di trovare nuovi sentieri da percorrere. Siamo nel 1913, momento di fermento in cui la sua attività artistica è feconda e varia. La sua pittura si contrappone alle avanguardie esplose pochi anni prima e sancisce un rinnovamento, un passo in avanti, un nuovo modo di esprimersi. Al chiasso dei futuristi risponde con una pittura attenta al recupero del mestiere, alla concretezza delle forme e dei volumi, composizioni che restituiscono gli oggetti e i luoghi in un insieme spesso incoerente che crea un’atmosfera ambigua, misteriosa, muta.
Non sorprende che queste suggestioni abbiano avuto un’eco così vasta e risonante. Nel ’13 de Chirico, vive a Parigi, ed espone al Salon des Indépendants e d’Automne attirando l’attenzione della critica e di altri artisti. L’anno seguente Apollinaire, suo grande estimatore, lo presenta a Paul Guillaume che, divenuto suo mercante, invia alcuni suoi dipinti a New York.
L’Europa e l’America ammirano La nostalgie de l’infini, Les joies et les énigmes d’une heure etrange, Le chant d’amour…
Nel ’15, scoppiata ormai da un anno la Grande Guerra, l’artista viene inviato a Ferrara. Inizia il sodalizio con Carrà e dunque una nuova stagione artistica.
Le opere di de Chirico esposte alle Scuderie del Quirinale vanno dal 1911 al 1919 e propongono una lettura volta ad evidenziare i punti di contatto con quanti si sono confrontati con la sua poetica. Incontriamo quindi i surrealisti Magritte, Ernst, Tanguy e Dalì; gli scultori Brancusi e Giacometti; gli italiani Carrà, Morandi e il fratello Savinio, che seppur elaborando una lettura originale e personale della Metafisica, rivelano una vera e propria comunione d’intenti. Gli arditi raffronti con
Discutibile la scelta della curatrice Ester Coen di non corredare la mostra di alcun apparato didattico, se non per le didascalie che accompagnano le opere. La mostra è quindi di difficile lettura non avendo un criterio espositivo evidente; si passeggia per le sale cercando di creare connessioni, ricostruire un filo difficilmente individuabile, se non nell’unicità del tema. Un evento esclusivamente per addetti ai lavori? Forse. Al grande pubblico non resta che affidarsi alle visite guidate o alle audioguide.
L’originale catalogo dà voce oltre che alla curatrice e allo storico dell’arte Hans Belting, all’architetto Peter Eisenman, allo scrittore Tiziano Scarpa, al filosofo Félix Duque, all’archeologo Paul Zanker. E poi uno scritto di De Chirico, Il senso del presagio.
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Perfettamente d'accordo sulla discutibilità della scelta, da parte della curatrice, di non corredare la mostra di alcun apparato didattico. Certo, l'addetto ai lavori non ne ha bisogno e, per gli altri, ci sono le audioguide, peraltro fastidiose. Tuttavia qualche buona scheda illustrativa non sarebbe stato di troppo. Nella medesima logica, credo, va considerata l'indisponibilità di un catalogo in "editio minor".
Non è tollerabile che per vedere una mostra bisogna prima stare in fila per diverse ore, (per giunta sotto la pioggia) e poi, una volta dentro, non poter vedere le opere con la dovuta calma e concentrazione. Tutto a soli pochi eoro, precisamente 9,00.
Perchè non aumentare il prezzo d'ingresso? O perchè non limitare l'afflusso?