Giulio Turcato (1912-1995) mantovano ma romano d’adozione, è il protagonista della mostra -curata da Fabrizio D’Amico- che inaugura gli ampi spazi della galleria Emmeotto. In collaborazione con l’Archivio Turcato e grazie al contributo di alcune collezioni private, si inaugura la stagione del un nuovo spazio espositivo situato nella storica Via Margutta. Proprio la strada che ha ospitato negli anni Cinquanta la produzione artistica d’avanguardia italiana. A Milano come a Roma, gli ambienti intellettuali si animavano dialetticamente nella gabbia di un’ideologia di sinistra che auspicava ad un pedagogico realismo socialista, di cui Renato Guttuso fu un noto sostenitore. All’alba della prima Costituzione del 1948, anno da cui l’esposizione sceglie di partire, Turcato è uno degli animi inquieti di questa compagine avanguardista, nomade nonostante i vari collettivi a cui aderirà nella firma, ma non sempre nella coerenza delle forme (dal movimento Forma 1, 1947, al Gruppo degli Otto, 1953).
Molteplici i rimandi neocubisti, seppure le numerose Composizioni (1948-53) attestino quanto negano un geometrismo rigoroso in favore di un dinamismo lineare, allusivo, una componente di “movimento” che preannuncia la successiva influenza futurista. La volontà è quella di fondare un nuovo linguaggio artistico. Anche i suoi astrattismi ne sono coinvolti. Il privarsi di una regola prestabilita, l’astenersi critico da una mimesi pittorica in favore di un dipingere analogico di passioni oggettivate (lontani dai sentimentalismi decadenti ed espressionistici: “ci interessa la forma del limone, non il limone”, recitava il manifesto di Forma1) è la possibilità per Turcato di poter porre figure su tela, scomposte in campiture di colore, evocative quanto presenti (Miniera, 1950), fauvistiche e riconoscibili (Paesaggio con civetta, 1953-54). E di poterne ancora parlare nei termini di un Astrattismo Concreto, declinato alla maniera del critico Lionello Venturi, terza via nella querelle fra realtà figurativa e astratta, formalismo e marxismo.
Tuttavia Turcato va oltre. Ironico, “intimamente aristocratico e
La disposizione delle opere in galleria è informale, a-tematica, rallenta un’analisi diacronica a favore di quella sincronica. Punto di fuga iniziale è il picassiano Massacro al napalm (1952), che si distende poi nel primeggiare de Le Rovine di Varsavia (1949, 48, 50) nella sala centrale e solo infine ritrova una cronologia nello spazio predisposto alle opere più recenti, polimateriche, degli anni Sessanta, che sperimentano i suggestivi paesaggi del fantastico lunare. Un’anarchia dispositiva, la mancata cornice delle opere, la semplicità degli interni, ben si concedono all’ipotesi di un’arte ribelle, refrattaria a mitologie moderne, variabile e attuale.
chiara li volti
mostra visitata il 16 dicembre 2006
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