Può sembrar strano, ma la prima sensazione che si prova quando si comincia a girare per le sale della mostra di
Emilio Vedova (Venezia, 1919-2006) è che qualcosa ti segua. Invisibile ma presente, come se la soluzione di continuità attuata dalle varie opere fosse cancellata dal
continuum della loro espressività. Uno
stalker che tallona lo spettatore con gli stessi metodi di un guerriero ninja, silenzioso e sfuggente.
Non poteva che essere così l’opera astratta di un uomo vissuto in una città come Venezia, e fortemente influenzato dall’idea del mistero, dell’indeterminato, dell’indistinto, di quel vitale mescolamento tra il folle e il sensato che percorre inaspettatamente campi e calli in apparenza nitide e gioviali. La maschera dei
Carnevali come uno dei temi più cari al nostro, un oggetto dal forte impatto significativo, incastonato in opere votate all’oscurità, al malcelato, espressioni di una verità figlia di un sogno inquieto, da cui è difficile risvegliarsi. La città lagunare come specchio delle nostre ombre segrete, quindi, ma non solo. Anche la guerra, con la sua distruttività, che dell’insensato è l’aspetto più tragico, trova spazio nella sua riflessione. Prima nelle opere dal tratto più regolare e geometrico, sintomo di un pensiero non ancora completamente metabolizzato e messo al servizio dell’espressione artistica. Poi nei segni esasperati e decisi, eppure in qualche modo implosivi, delle tele più grandi e decisamente più famose, che occupano non a caso la sala principale, insieme ai
Plurimi.
È questo un po’ il Vedova che tutti conoscono, quello che cerca nell’autonomia del gesto pittorico una via di fuga, se non di riscatto, dall’orrore della Storia ma anche più quotidianamente dal dissidio, dalla contraddizione, dalla contrapposizione soprattutto interiore. Una produzione che si consolida paradossalmente in quei tratti drammatici e liberatori, in quegli impatti sulla tela dal colore stridente sul bianco e nero che caratterizzano i lavori più noti. È qui che la visione artistica di Vedova viene completamente permeata dalla percezione che il discontinuo e l’inaspettato della realtà sono qualcosa di ineluttabile. Ma è anche da qui che parte il suo tentativo di recuperare un valore esistenziale forte, una determinazione dell’essere e dell’io che permetta all’individuo di persistere nel suo progetto esistenziale, dandogli un valore costruttivo ed evolutivo. Il
kósmos che nasce dal
kaos, quindi, non tanto come ritrovata regolarità delle forme, ma come dinamismo animato che aspira a ridisegnare un mondo dotato ancora di senso e di significato, dove una possibilità progettuale è ancora data.
Proprio nell’affermazione di questo nuovo
esserci che le tele letteralmente
si alzano, si strutturano, invadono lo spazio obbligando a differenti punti di vista, come nei già citati
Plurimi. E reclamando una complessità che è insieme una risposta e una difesa nei riguardi dell’imperscrutabilità del reale. Complessità che trova poi, nel tempo, una soluzione e un superamento con i
Dischi, illuminatamente posti di fronte all’ingresso, malgrado siano fra i lavori conclusivi della lunga vita dell’artista. Dove nelle tele circolari si percepisce con forza il ritorno dell’individuo a sé stesso, non più fragile ma dotato ormai di una forza e di una stabilità tali da consentirgli una costante affermazione. Anche di fronte all’incertezza e all’inanità del mondo esterno.