Titaniche colonne incorniciano la cupola vetrata, fiancheggiando il percorso. Nel romano Palazzo delle Esposizioni riaperto al pubblico innanzitutto con l’attesa retrospettiva di
Mark Rothko (Dvinsk, 1903 – New York, 1970). L’intento è di offrire, attraverso una settantina di dipinti e un significativo gruppo di schizzi su carta, un quadro generale della sua produzione. Senza dimenticare l’ansia costante dell’artista di presentare il suo lavoro mediante gruppi di opere scelte, creando un effetto visivo d’insieme. La selezione dei dipinti segue di sala in sala, con un criterio che quasi coincide con quello cronologico.
Il maestoso edificio, fresco di restyling, fa da scenografia ideale all’opera del grande pittore. La liturgica monumentalità del luogo -del tutto in sintonia con lo spirito di Rothko e della sua aspirazione a realizzare opere imponenti- è scandita da bianche pareti divisorie, frutto dei moderni arredi espositivi. Su di esse -quasi debordando dalle tele prive di cornici- ondate di pittura vibrante.: è l’impatto con l’opera “classica” di Rothko. Viscerale, emotivo, estrinsecazione di una profonda empatia comunicativa, anche origine di malessere
“che va fino alle vertigini”, secondo il giudizio del compianto Luciano Pistoi. Del
feedback con l’osservatore, Rothko, teso com’era a rivelare le emozioni primarie dell’uomo -tragedia, estasi, estinzione- appare lucidamente conscio.
L’anelito a partecipare a una sua dimensione intimista è presente già nelle prime opere del decennio 1930-40. Quadri di piccolo formato con elementi architettonici incombenti sulle superfici (
Street Scenes) e, ancora, nei cosiddetti
Subway Paintings, sul motivo dell’isolamento umano. Ma anche nei
Pannelli trattati con gesso, influenzati dall’arte italiana del Quattrocento. Tutti evidenziano una spazialità claustrofobica che, osserva il curatore Oliver Wick,
“opprime la figura e la pone in un rapporto di tensione con la quiete dello spazio circostante”.
Nei dipinti dei primi anni ‘40, sullo sfondo della Seconda guerra mondiale, il messaggio di Rothko si fa più accorato. Espresso in chiave surrealista e mitologica, estrae le sue radici dal mondo classico. Il tema della tragedia greca, esperienza conflittuale arcaica, diventa qui metafora universale dell’ineluttabilità della catastrofe. In sintonia, per certi versi, con artisti come
Barnett Newmann e
Clyfford Still, e ispirata dalle letture di Nietzche e Jung e dallo studio della filosofia zen, la personalissima ricerca estetico-formale di Rothko sperimenta in quegli anni il sistema più efficace di trasmettere, attraverso i sensi, temi universali.
Nel ‘45 la narrazione onirica dei “frammenti di mito” va dissolvendosi in forme organiche: i cosiddetti
Multiforms, serie di dipinti anch’essi in mostra, considerati il punto intermedio dell’artista verso l’astrattismo. Dalle composizioni biomorfe, fluttuanti da una tonalità all’altra, alla plasticità spaziale delle opere del 1947-49. Viene affermandosi la preferenza per i grandi formati, più coinvolgenti per l’osservatore, che deve
“sentirsi avvolto dal quadro”.
Ed eccoci all’opera matura degli anni ’50. Qui le macchie di colore -stese per rapporti tonali- si distribuiscono in rettangoli dai contorni indistinti su zone sovrapposte. Visivamente percepite come spazio di luce-colore, stratificato per piani paralleli. Fino ai
Blackform degli anni ‘60, dove le forme scure bipartite aspirano a uno spazio trascendente. Negli ultimi
Black and Grey che precedono il suicidio di Rothko, l’arte diviene sempre più austera e aniconica, ma non meno densa di tensione. Nelle campiture grigie, brune, appena increspate, una vitalità e una veemenza compositiva forse mai raggiunte prima. La percezione di un isolamento lacerante sia del pittore, sia di chi osserva, costringe infine a guardare con angoscia dentro noi stessi.
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la mostra di rothko aveva un'illuminazione pessima, i quadri erano praticamente al buio. per i 10 euro del biglietto, potevano e dovevano fare un pò meglio! la solita italia...