Una particolare problematica metafisica, dove i misteri non devono essere decifrati ma piuttosto sperimentati e vissuti, domina tutta la mostra che
Bill Viola (New York, 1951; vive in California) presenta al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Un viaggio profondamente spirituale, creato per chi è alla ricerca di se stesso, in cui lo spettatore rimane profondamente colpito, coinvolto e trascinato in una miriade di emozioni che non sa come reggere logicamente. Il risultato appare in perfetta sintonia con il
Ku – il silenzio totale – della filosofia zen, inteso come condizione originaria della natura umana.
La struttura rituale del percorso crea un progressivo distacco, sia dalla conoscenza sensibile sia da quella razionale, che costringe a inoltrarsi verso un’altra realtà. Un mondo ignoto, in cui la stabilità percettiva è continuamente in bilico fra la certezza di ciò che si vede e la titubanza di ciò che si sente, oltre le parole, le spiegazioni o le istruzioni. Così, nella totalità dei lavori esposti – quindici installazioni multisensoriali, che ricostruiscono la produzione dell’artista dal 1995 a oggi, dunque tutti nella ‘seconda fase’ della sua carriera -, la sua abituale sofisticazione tecnica e l’essenzialità formale creano un’atmosfera straniante, incognita, animata ulteriormente da un allestimento ineccepibile.
La mostra, volutamente segmentata in due grandi proposte concettuali (una prima decisamente rituale e una seconda più meticolosa nell’analisi delle emozioni), risulta a ogni modo dominata da una sensibilità intensamente contemplativa. Nella prima sezione, le diverse stanze segnano gli intervalli di un itinerario in cui la quotidiana celerità della vita sociale è soppiantata da una lacerante solitudine, lontana da qualunque cognizione temporale. Isolati in una rasserenante oscurità, la fragilità, la paura o il dubbio non possono fermare la naturale progressione verso l’ignoto.
Un’attrazione istintiva verso un viaggio ascetico la cui origine è segnata da
The Crossing, l’annientamento del corpo, vacuo e inutile, provocato dal fuoco e dall’acqua, elementi primordiali rigenerativi. Seguono, tra diversi lavori,
Emergence, morte e risurrezione,
Catherine’s Room, la visione extracorporea della propria vita, e poi
Departing Angel o
The Veiling come passaggi indispensabili per raggiungere l’estasi assoluta.
Nella seconda parte della mostra, invece, la spiritualità diviene più emotiva, terrena e soprattutto umana. Rivisitazioni storiche in
The Greeting insieme a lavori come
Silent Mountain o
The Locked Garden, dove stati emotivi complessi vengono attirati alla luce della percezione cosciente. Gioia, solitudine, collera, pena, comunicazioni fraintese o tormenti esistenziali devono essere trascurati, dimenticati, per guardare serenamente oltre i propri limiti e varcare la soglia che conduce a una più profonda intimità, sia laica o religiosa. Vengono così interpellati, rivalutati e compendiati l’eterno ritorno nietzscheano, l’esistenza ciclica buddista, il sufismo islamico e il misticismo cristiano, Meister Eckhart
in primis.
Un percorso in cui la teatralità dei personaggi, i tempi estremamente rallentati, dilatati o invertiti, gli spazi onirici, le luci soffuse e i suoni alterati stimolano continuamente la percezione sensoriale e l’intelletto, provocando uno stato di estasi contemplativa e un profondo distacco materiale. Per trovare la calma che si nasconde nella parte più intima della nostra anima.
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Caro Bill, fortuna tu.
Più che la mostra mi sono piaciute le parole che ci ha regalato durante la conferenza. Affascinante.