In una lettura semiotica dell’opera d’arte, quale segno
iconico affine a un testo, il titolo costituisce un elemento paratestuale:
contiene ragguagli per la sua fruizione ma è anche autonomo. Il titolo funziona
come una soglia (Genette), una zona incerta fra il dentro e il fuori. Che
stabilisce un primo patto con il ricettore, suggerendogli un approccio
interpretativo.
In tal senso, la necessità di sottrarsi alla titolazione
dell’opera – nata in ambito dadaista e diffusa in area informale – tende a
scardinare la lessicalizzazione dei temi affrontati nelle immagini, per
determinarne i
topic. Attraverso la presenza del titolo o l’assenza dello stesso (che non
è poi una vera assenza, ma una dichiarazione metalinguistica) è possibile leggere
l’intenzionalità dell’artista, il rapporto tra parole e oggetti, la relazione
più o meno “
aperta”
fra autore, opera e fruitore.
Questi i temi d’indagine della mostra allestita con
efficacia negli spazi dell’ex frutteria, dove si confrontano e dialogano 28
artisti dagli anni ‘60 aa oggi. Il percorso espositivo si apre con una
panoramica di opere titolate, d’ambito concettuale. “
Da quel momento”,
scrive Alberto Dambruoso, curatore
della mostra con Micòl Di Veroli,
“
le didascalie, i titoli, i concetti in essi racchiusi
diventano opera d’arte stessa, conditio sine qua non per la comprensione
dell’opera”.
Ecco allora fra gli altri:
Tentativo di formare
quadrati di
De
Dominicis, il cui
titolo è strategico alla descrizione della performance;
Specchio cieco di
Boetti, metafora-antinomia sul
vedere/vedersi;
Museo 1896 di
Paolini, dove il senso dell’opera è nella didascalia di pugno
dell’autore.

Prosegue una carrellata di opere
titled/untitled con scarti generazionali e di
linguaggi: dalla fotografia di
Dino Pedriali alla scultura di
Carl D’Alvia, passando per le immagini
patinate e insieme inquietanti di
Toomattos. La dichiarazione “Io non ho
titolo” nel
Senza Titolo di
Paolo Angelosanto dialoga ironicamente con l’opera di
Maurizio Arcangeli dal titolo
MA nascosto in un codice di
segnalazioni nautiche. Ancora, accostamenti di lavori dello stesso linguaggio:
i dipinti astratti
Senza titolo di
Ilir Zefi e
Apeiron di
Chiristian Breed evidenziano come, in certi casi, uno scambio di
didascalia
non
altererebbe la percezione delle opere stesse.
Proprio per la sua natura parzialmente autonoma, può
accadere – come in
Se credevi di aver trovato l’albero delle ciliegie di
Robert Gligorov – che un titolo divarichi la
distanza tra parola e immagine, amplificando l’effetto spiazzante ed enigmatico
dell’opera.
Nei sotterranei ci accoglie la monumentale figura
mitologica di
Stefania Fabrizi. L’ambiente pregno di tensioni simboliche,
Untitled (Le
considerazioni sugli intenti della mia prima comunione restano lettera morta, Spazio
#2), è realizzato
da
Gian Maria Tosatti di
Hôtel de la Lune. Nello spazio successivo,
To be titled, disegno e performance di
Angelo
Bellobono e,
nell’ultima ex cella frigorifera, il video di
Luana Perilli sulla natura ambigua degli
oggetti animati/inanimati.
In conclusione: il titolo di un’opera d’arte e la sua
assenza, per quanto chiamati a svolgere o non il ruolo di operatori di
transemioticità, rappresentano “
facce opposte della stessa medaglia, l’una non esclude l’altra,
l’una ha bisogno dell’altra per giustificare la propria esistenza o non
esistenza” (Di
Veroli).
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...si mi è capitato di assistere alla mostra anche se non conoscevo lo spazio ed i critici che la curavano, ma ero attirato dai grandi nomi proposti tra tutti De Dominicis che è il mio prediletto. Bello l'evento ed a sorpresa anche gli artisti diciamo della nuova guardia hanno tenuto botta e mi è piaciuto tutto nell'insieme!