Un ameno giorno del 1979 Nicola partì per l’India e, in un certo senso, non tornò mai più. Al suo posto tornò Tarshito, al secolo Nicola Strippoli (Corato, Bari, 1952), dotato di un nuovo nome -e forse di una nuova identità- che tradotto dal sanscrito significa “sete di dio”. E si può supporre che la ricerca di Dio sia soprattutto la ricerca dell’altro dentro di noi, accolto nella sua dimensione più profonda, quella che maggiormente ci avvicina al divino. Una ricerca dell’altro che è fatta di forme e colori, ma soprattutto di comprensione. Un’adesione totale agli stili di vita, agli usi, alle credenze, al sentire comune che ogni popolo elabora per creare quei legami che permettono la condivisione, il riconoscimento reciproco, l’unità. L’Occidente che si permea di Oriente e si guarda nello specchio della creatività condivisa.
Le visioni di Tarshito, dunque, lontane dalla tradizione indiana, dotate di una propria originalità (nata proprio da questo connubio) e rese tangibili dalle abili mani artigiane di Dastkar, Firak Di Bello, Lala, Jagdish e Shekhar Kumar Pandit, Puspa Rao, Kamlesh e Umesh Ratna, Raju e Mukesh Swami, Via Jodhpur. Nascono così i “guerrieri d’amore”, dall’iconografia inedita, ma non per questo meno significativa. “Alcuni guerrieri d’amore hanno il fiore al posto della lancia, altri hanno piedi che si trasformano in radici, capelli in antenne, oppure il corpo che si trasforma in vaso”. Ma l’aspetto interessante non è solo questo. In questo modo si rintracciano anche le strutture originarie del rapporto uomo-mondo. Inevitabilmente ogni cultura, condizionata dalla dimensione spazio-tempo (dove e in che periodo viene elaborata dai componenti di una comunità) acquista i suoi aspetti peculiari.
Tuttavia, altrettanto inevitabilmente, il rapporto originario dell’uomo col mondo che lo circonda, prima ancora della costruzione di qualsiasi cultura, di qualsiasi koiné, deve necessariamente essere stato lo stesso per tutti. E soprattutto, questa percezione originaria dell’essere al mondo, malgrado si riferisca a qualcosa avvenuto nella notte dei tempi, continua a vivere in noi ad un livello trascendentale, per certi versi ineffabile e per altri pur sempre raggiungibile.
L’incontro fra due culture così diverse, così lontane, come l’Occidente e l’India, consente proprio questo: là dove le due sensibilità convergono, permettendo la fusione di intuizioni e idee sul piano individuale, le sinergie -teoriche o pratiche che siano- riescono ad intercettare questa dimensione primigenia e fondativa del vivere e dell’operare umano, il suo minimo comune denominatore. Lo stesso stratagemma, in definitiva, che Arthur Schopenhauer ha utilizzato, intessendo il suo pensiero filosofico con la conoscenza dei Veda e delle Upaniþad (testi sacri agli indù), per indagare gli aspetti costitutivi dell’agire e del pensare umano, sintetizzandoli poi nel suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione. Qualcosa cui è giunto anche Matisse, contaminando la sua pittura con l’arte giapponese.
Tarshito stesso descrive questo processo in modo molto suggestivo: “… Sicuramente le opere che ho fatto in Tunisia con artigiani e artisti di lì sono molto diverse da altri lavori. Quello che li accomuna è questo passaggio che sento, che è la costruzione del mio tondo, della mia armonia, il farmi penetrare dall’idea, dal momento: che io sia in Tunisia, a Bari, in India. Non cambia molto. I miei lavori tunisini sono molto diversi da quelli indiani, e forse anche da quelli italiani, però quello che li accomuna è il fare l’opera per dedicarla di nuovo al divino. L’idea infatti arriva dal divino, mi attraversa, io la materializzo e poi la ridono, per cui questa ritualità accomuna tutte le cose, è un tentativo di cerchio.”
Una ricerca cosmica, dunque. E un’energia che nasce da questa ricognizione del divino, energia che la mostra ha il pregio di non disperdere ma di mettere a disposizione del visitatore, con un impianto espositivo scarno ma efficace. Dove le accurate miniature disposte al centro della sala lasciano poi lo spazio ai grandi arazzi, alle dee di terracotta e alle pitture su carta fatta a mano, che ornano le pareti come a formare il perimetro di un luogo di culto. Luogo da dove si esce vittoriosamente sconfitti, trafitti dalla lancia fiorita del grande guerriero.
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