E’ spiazzante constatare come la contemporaneità di Don McCullin non abbia niente a che fare con l’Iraq, da cui tornò l’anno scorso senza neppure un’immagine (come molti colleghi aveva scelto il tranquillo fronte settentrionale, dove gli americani non erano interessati ad esercitare un ferreo controllo sui media). Dopo tante guerre -nei giorni della guerra- il fotoreporter inglese presenta in anteprima mondiale ai Mercati di Traiano un lavoro sulle tribù dell’Etiopia meridionale: primitivi nudi in posa statica davanti alla macchina, col capo adorno di ossa e di piume. Un classico dell’antropologia visiva a cui era abituata la civiltà in tempi di colonizzazioni positiviste, ai giorni nostri una prova di esostismo scevra dal fuoco della violenza verbale che satura la quotidianità televisiva.
La grana fina della pellicola, i toni freddi e nitidi, certi sfondi neutri e quasi svuotati dell’aria rimandano esplicitamente alle vecchie documentazioni etnografiche; se ne allontanano il rapporto indissolubile –quasi da giardino delle delizie- tra gli uomini e l’ambiente e il fascino che emana dai dettagli applicati sui corpi (scarnificazioni, piattini d’argilla inseriti nelle labbra, pittura bianca ecc.). L’obiettivo se ne serve nei ritratti di gruppo per distinguere le tribù, li contiene a stento nei primi piani intensificando nei volti e nei profili l’apparenza della nudità.
I kalashnikov ben visibili, piuttosto che assorbire ironicamente una distanza, confermano il forte realismo delle fotografie, prive di suggestioni magiche o animiste (a differenza ad esempio della bella serie di Cristina Garcia Rodero Rituales en Haiti 2001); allo stesso tempo adombrano una penetrazione atta a guastare questo Eden di dignità, in quanto oggetti precariamente disinnescati dall’antropocentrismo dei modelli.
Il senso di violenza sopita -indagata in una dimensione quasi ideale- è un tramite per la mostra antologica in cui è raccolta un’ampia selezione del lavoro di McCullin, dagli esordi londinesi ai più celebri reportage di guerra (Cipro, Congo, Vietnam, Bangladesh, Libano).
Si tratta di un corpus di opere posto spesso al centro di letture teoriche (Sontag) e rielaborazioni narrative (De Lillo), fondamentale per il suo valore estetico e di documento storico. Mai imparziale o effimero, come dimostrano le fotografie dell’ospedale psichiatrico di Sabra dopo i bombardamenti israeliani (1982) e Un mercenario bianco e una famiglia congolese a nord di Stanleyville (1964), perfetta iconografia della tragica eredità del colonialismo.
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