L’allestimento delle 17 fotografie di grande formato che formano la serie Deep South (1998) mette in evidenza un aspetto importante delle immagini create da Sally Mann: i faretti puntati singolarmente dall’alto su ciascuna opera creano un’illuminazione locale ed insieme con le massicce cornici nere danno l’impressione di trovarsi di fronte all’esposizione di oggetti, raccolti per di più in una sorta di camera privata.
La suggestione ricercata è quella del vecchio album, come dimostrano abbondanti indizi, a partire dai quattro angoli anneriti e dai numerosi procedimenti di “usura” a cui sono state sottoposte le fotografie in fase di sviluppo e di stampa, ad esempio graffi e abrasioni del negativo (l’artista ha inoltre utilizzato al momento dello scatto una macchina dell’inizio del secolo scorso, costringendola spesso a sovraesposizioni e distorsioni). Viene così a crearsi un efficace contrasto tra la presenza netta del pezzo e la scarsa leggibilità delle immagini, necessaria all’interpretazione del paesaggio proposta da Mann. Tra i boschi e le acque non è possibile rintracciare nessuna presenza umana, se non in forma di frammento architettonico o di rovina; in questo modo l’iconografia ritorna sul senso di avanzamento inesorabile della natura, processo di erosione che genera la contemplazione del trascorrere del tempo, già osservato sul corpo stesso delle immagini. La forma degradata, i cui contorni sono ormai indefinibili (da qui la rinuncia alla linea e al bianco e nero), è dunque il medium della rappresentazione, il cui oggetto è la memoria stessa, sganciata da ogni coordinata storica e trasformatasi in percezione sensibile del passato.
I riferimenti a teorie e riflessioni risalenti all’inizio del Novecento, in primo luogo agli scritti di Alois Riegl sul sentimento dell’antico (molto in voga negli ambienti accademici statunitensi degli anni Novanta), sembrano più pertinenti di una comparazione con ipotesi recenti sia sul paesaggio puro sia sulla fotografia come cosa e oggetto. Accanto all’illuminazione e al tipo di cornice si rivela allora –significativo- il sapore vagamente decadente, appena complicato dall’idea ricorrente dello specchio d’acqua stagnante, da cui è condannato a uscire il riflesso delle forme. E si chiariscono meglio -in relazione anche a serie precedenti realizzate dalla fotografa nata in Virginia- le intenzioni fortemente autobiografiche, poste in primo piano dai curatori nel testo introduttivo.
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www.sallymann.org
francesca zanza
mostra visitata il 28 aprile 2004
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