Si è molto parlato negli ultimi tempi dell’apertura di una galleria Gagosian a Roma: la realtà è che, da alcuni mesi esiste un ufficio di rappresentanza del celeberrimo mercante d’arte di origini armene (con base a New York, Beverly Hills e Londra), situato all’interno dello storico Palazzo in Largo di Fontanella Borghese. Spazio perfettamente in grado di ospitare concentrate esposizioni di alcuni degli artisti più noti trattati dal circuito internazionale della galleria.
La mostra dedicata ad Ed Ruscha rappresenta bene l’accostamento particolarmente misurato alla scena artistica e al mercato italiano adottati da Gagosian. A distanza di un anno appena dall’ottima retrospettiva dedicatagli dal MAXXI per la cura di Paolo Colombo, e in accorta concomitanza al padiglione degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia che lo vede protagonista, l’artista californiano (è nato nel 1937 in Nebraska ma si è formato a Los Angeles, dove tuttora vive) torna a Roma per presentare dieci disegni realizzati tra il 2004 e il 2005, esemplari della ricerca grafica e concettuale inconfondibilmente assimilata al suo nome.
Disposte in un caratteristico formato ‘panavision’ allungato in orizzontale, singole parole o brevissime combinazioni testuali sono tratteggiate con estrema meticolosità e i mezzi espressivi più diversi -dalla penna biro alla polvere da sparo- emergendo dai disegni con un effetto straniante ogni volta inedito, senza che mai la formula artistica alla loro origine dia segni di stanchezza o ripetitività.
In particolare, tre disegni della serie The End, incentrati su variazioni della classica epigrafe hollywoodiana, sfruttano in maniera ancora più sottile la suggestione cinematografica delle dimensioni del foglio per avviare un sottile e ironico gioco percettivo.
Molto è stato scritto sull’uso delle parole nell’arte di Ruscha, ma, come di solito accade, è negli appunti o nelle confessioni più o meno estorte all’artista che si rinvengono gli indizi maggiormente utili per ricostruirne la scena mentale. Da un’intervista risalente al 1973 e riportata in una monografia pubblicata di recente dalla MIT Press (in collaborazione con la Gagosian Gallery), si scopre così l’interesse profondo, fino a divenire tattile e sensoriale, di questo artista inclassificabile e diagonale per il linguaggio: “le parole hanno una temperatura per me. Quando raggiungono un determinato livello e diventano parole roventi, è allora che mi colpiscono. […] Alle volte sogno che se una parola diventa troppo calda e troppo interessante, finisca per svaporare e io non sia più in grado di pensarla o leggerla”.
Merita considerare, allora, come l’opera in assoluto più affascinante tra quelle in mostra sia un disegno in cui la parola brucia e letteralmente si consuma, liquefacendosi in un gioco essenziale di nero e bianco come una pellicola che va a fuoco, insieme all’immaginazione di chi la osserva.
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