Più di trenta imponenti e quasi monumentali opere invadono le sale del MACRO, in un tripudio di trasparenze, colori, materie ed oggetti. L’arte di Tony Cragg (Liverpool, 1949; vive a Wuppertal) – per comprenderla può esservi sicuramente d’aiuto l’ottima monografia edita in occasione della mostra – è fatta di gesti, di piccoli ed ossessivi rituali lavorati a lungo nella mente, fino a raggiungere la più assoluta perfezione. A differenza degli scultori americani a lui contemporanei (Richard Serra e Richard Long, ad esempio, anche se quasi di un decennio più vecchi) Cragg non elabora i materiali, non li sottomette crudamente alle esigenze dell’artista, bensì li dispone, mettendo in atto una trasformazione ancor più sottile e definitiva. Per usare una frase di Kay Emer, l’artista lascia che i materiali facciano ciò che devono da soli.
E se i minimalisti americani prediligevano in quegli stessi anni ’70 i materiali duri come acciaio e pietra, il giovane Cragg (che aveva ricevuto la sua iniziazione artistica con la mitica mostra When Attitudes Become Form di Harald Szeemann) rivolgeva la sua attenzione ai residui della civiltà postmoderna, alle scatole di cartone dei detersivi, alle bottiglie di vetro di tutte le fogge e misure, a oggetti e oggettini di plastica e latta. Il tutto accatastato, allineato, dipinto e incastrato con la massima cura, avvalendosi dell’apporto tecnico del proprio atelier e riservando per se stesso esclusivamente il ruolo del supervisore, con la maniacale cura del dettaglio. Più
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