Un po’ laboratorio, un po’ serra: così appare la galleria in occasione della prima personale romana di
Carla Mattii (Fermo 1971; vive a Milano). L’artista ha esposto più volte nella Capitale, dopo la Quadriennale del ‘96, e anche in questo stesso spazio dove, nel 2005, ha partecipato alla collettiva con
Isca Greenfield-Sander e
Silvia Zotta.
Il coinvolgimento sensoriale è assicurato -visivo, sonoro e olfattivo- sempre però in bilico tra verità e finzione, a partire dal titolo della mostra,
Rumore bianco, che per l’appunto si fa contenitore di significati diversi: dalle frequenze acustiche allo spettro luminoso, dal rumore della pioggia ai pixel della fotografia digitale. Mattii si avvicina, entra nella natura indagando, attraverso i meccanismi della manipolazione, virtuali e non, i processi artificiali della natura stessa. Il risultato è un ibrido ignoto. Non c’è critica nel suo lavoro, piuttosto piena consapevolezza della realtà attuale.
Type Theory si presenta come un giardino-laboratorio popolato di fiori inesistenti in natura. La scelta del bianco è determinante, perché essendo un non-colore neutralizza con il suo anonimato una peculiarità dei fiori: il cromatismo. In questo suo elaborato processo, l’artista parte da venti specie botaniche e, dopo averle scansionate in 3d, cambia l’ordine naturale di petali, pistilli, bulbi, foglie e steli, ottenendo combinazioni imprevedibili. In fondo, anche “
Goethe parlava di Urpflanze
, ovvero di una sorta di pianta base riproducibile nelle sue svariate metamorfosi”, spiega.
In questo caso il prototipo si moltiplica assumendo aspetti nuovi. Dal virtuale si passa alla scultura attraverso l’impiego di polvere di nylon sinterizzato che dà vita a un corpo solido. Un processo di prototipazione rapida di largo uso in ambito industriale. L’opera finale è un esercizio di modellismo in cui “
l’impianto cartesiano dei kit
, con la sua grammatica ortogonale, ha imbrigliato il caos apparente degli organismi naturali in una sorta di erbario cristallizzato, degno di una wunderkammern rinascimentale”, afferma Ivan Quaroni in
Secondo Natura.
L’odore della terra bagnata, insieme al suono della pioggia, sono ricreati artificialmente in
Waiting for the Rain. La grande zolla di terra marrone è proprio vera, come le piante verdi che vi crescono. Piante che si nutrono d’acqua sotto forma di umidità, motivo per cui Mattii ha progettato un apposito strumento collegato a un sensore -il
Rainstick– che si ispira al “bastone della pioggia”, strumento sudamericano musicale e religioso utilizzato nelle cerimonie, che si aziona quando scende il livello dell’umidità. È il momento in cui l’asta di ferro e plexiglas si agita e le palline di plastica al suo interno, sbattendo fra loro, creano una “melodia uggiosa”. Contemporaneamente si espande l’odore del dopo-pioggia, ricreato artificialmente.
Il confine tra verità e finzione è veramente sottile, spesso impercettibile, ci mette in guardia l’artista; quanto quello della bellezza naturale, che basta poco a far scivolare nella mostruosità.