Ci sono occasioni, definite e rare, in cui è dato avvicinarsi al più profondo e originario potere sinestetico dell’arte, scoprire quel principio magico per il quale ogni cosa è ogni cosa: la pittura di un cervo in una grotta un cervo, una parola l’immagine, ma anche un disegno che può essere scultura, e viceversa.
La mostra di Roberto Almagno (Aquino, 1954) in corso presso la galleria domestica di Mara Coccia è una di queste occasioni. Nello spazio di pochi candidi metri quadri, sette sculture e trenta disegni determinano un luogo di scarti percettivi che –sovranamente sorprendenti e inaspettati all’inizio– risultano essere tanto omogenei e coerenti da assorbire ben presto l’osservatore al loro interno, catturandolo completamente.
I disegni esposti fitti e a corpo su una sola parete, come un racconto in sé compiuto, tradiscono il recente ritorno di Almagno a tale forma espressiva dopo un lungo periodo di abbandono, e significativamente la ritrovata affinità viene celebrata recuperando una serie mai esposta risalente a quasi dieci anni fa, come a riprendere il filo di un discorso interrotto ma mai dimenticato. In trenta concentrate tavole di piccole dimensioni, realizzate con complesse tecniche miste dove la cenere, il carbone, le ruggini si mescolano con l’acqua a creare vorticose profondità, s’intende un caratteristico bisogno e intento dell’artista di definire saldamente uno spazio attraverso l’immagine, e nel cortocircuito di una scultura su carta si trova anche la chiave per avvicinarsi alle sette opere plastiche in mostra.
Un lavoro febbrile si nasconde tra le pieghe di legni sinuosi e miracolosamente sospesi. Rami d’albero rinvenuti nel corso di lunghe passeggiate nei boschi, scortecciati, bagnati e modellati con la fiamma, quindi patinati a tampone, si f
luca arnaudo
mostra visitata il 9 maggio 2007
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