Dipinge su affiche cinematografiche degli anni Settanta, Gianluigi Toccafondo (San Marino, 1965). In un misto di divertissement ed esperimento visionario, l’avventura del calabrone assassino (questo il titolo della mostra) si dipana in sequenza sulle pareti della galleria. Un’operazione site specific che trova qui il suo inizio e la sua conclusione, creando un mondo di figure alterate, liquefatte, deformità e difformità ispirate ai noir americani. Che descrivono però un mondo non cupo, ma stralunato, come visto attraverso un vetro deformato o gli occhi di un ubriaco nel pieno di una bella sbronza. Nello stile pittorico c’è qualcosa di Schifano, ma più introverso e immaginifico. Lo sforzo per capire il filo della narrazione è notevole, ma aiuta a catapultarsi in una dimensione dove le identità vengono dissolte ma non perse, il colore aspro la fa da padrone, e l’assurdità del tutto si impone come un leit motiv quasi piacevole. In definitiva, sembra essere così la realtà per Toccafondo, almeno a giudicare da un quadretto (incorniciato, destino riservato a poche opere dell’esposizione) che riporta alcune frasi prese qua e là per strada, in uno slang romanesco molto marcato, quei modi di dire che spesso sono un canovaccio da commedia dell’arte della relazionalità popolare capitolina.
Un risultato ottenuto con immagini che nascono in realtà autonome, ma che trovano un trait d’union per generazione spontanea, con la storia che si dipana lungo una linea misteriosa, sulla base di un disegno ineffabile, che lo spettatore (e forse anche l’autore) può solo intuire, consegnandosi completamente alla valenza quasi enigmatica e, perché no, latamente simbolica (come il gigantesco uovo bianco che viene amorevolmente raccolto dalla protagonista e che diventerà l’altrettanto gigantesco calabrone) che l’insieme finisce per acquistare.
Lo spessore dell’impasto dà poi una consistenza alle figure molto marcata, proiettandole verso lo spettatore, invadendo la realtà concreta e definendo anche in questo modo un gioco di rimandi, di coinvolgimento, di spiazzamento. Un meccanismo che non permette il distacco della valutazione fredda, ma solo quello della percezione pura.
Quello che resta del cinema, alla fine (e non è poco), è l’utilizzo dei suoi tipi, per non dire dei suoi stereotipi, per la realizzazione di un plot in pieno deragliamento, con il tentativo giocoso di evidenziare il passaggio da una semplice tipoplogia alla dimensione dell’archetipo.
Lasciarsi andare all’irrazionale, dunque, con una paziente sottomissione e un devoto spirito di osservazione, senza giudicare. Farsi aiutare dalla comprensione senza tentare di schematizzare, lasciare che il disegno scompaia, la campitura di colore si allarghi, il senso del racconto sfugga. Il suggerimento di una prospettiva sulle cose che può sembrare inquietante, ma che invece ne coglie l’aspetto istrionico. Forse il modo più vero per accettarle come realmente sono.
valeria silvestri
mostra visitata il 16 novembre 2006
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