Si può fare arte con la natura? O non si tratta piuttosto di una scaltra impostura adatta al bisogno di semplicità che consuma l’ipertecnologica società e cultura occidentale? L’arte contemporanea ci ha abituati allo sconcerto del recupero degli elementi più elementari, per questo ormai inconsueti. E’ così possibile passeggiare sorpresi tra cumuli di spezie colorate o ammassi di foglie in una galleria, mentre lo stesso atto risulta comune e privo di considerazione al mercato o in un parco. La questione, a ben vedere, sta sempre nell’intenzione, tanto dell’artista che dell’osservatore. E della purezza delle intenzioni che animano Wolfgang Laib pare assai difficile dubitare.
Classe 1950, originario della Germania del Sud ma viaggiatore instancabile nell’Oriente del mondo, una laurea in medicina mai praticata per contrasto con l’angusta impostazione scientifica alla base degli studi, Laib va annoverato tra i pochi artisti contemporanei che, nella molteplicità inebriante e spesso dispersiva delle arti correnti, hanno saputo fissare termini estetici di rigorosa essenzialità anche nell’uso di elementi naturali, perseguendo poi con concentrata serietà l’autenticità delle soluzioni trovate. Tra i primi lavori realizzati dall’artista, intorno alla metà degli anni Settanta, e poi costantemente riproposti, le pietre di latte sono sottili superfici concave di marmo immacolato, atte a contenere un velo di latte rinnovato ogni giorno. La forma della pietra, levigata e minimale, rimanda il pensiero critico alle ascetiche forme raggiunte da Constantin Brancusi (non a caso da Laib tanto ammirato sin dalla prima gioventù), ma la considerazione della forma non può qui andare dissociata da quella dell’atto ritualistico che la coinvolge.
Ad ogni esposizione è sempre l’artista a mettere in moto il processo, versando per primo il liquido: in questo senso, il processo ha la stessa importanza dell’opera materiale -la quale, va pur detto, sottoposta all’illuminazione artificiale di una sala da museo perde una parte importante della sua energia spirituale- come del resto dimostrano nella maniera più evidente i lavori forse più famosi di Laib, i riquadri di polline composti sul pavimento. Nel corso di lunghi periodi trascorsi all’aria aperta, seguendo la scansione delle fioriture, Laib raccoglie intorno alla sua casa di campagna a Metzinger il polline di alcune piante e alberi come il dente di leone e il nocciolo, custodendolo in barattoli spesso presentati nelle mostre come opere a sé. Una volta versato a terra in forme quadrate o rettangolari di dimensioni variabili, il polline assume un’intensità luminosa difficile a descriversi, e non stupisce che, al suo cospetto, la critica si scopra trasportata in regioni di misticismo di solito aliene, parlando di “luce cosmica… silenzio dell’emozione… lampi di energia” (Danilo Eccher). In effetti, il pulsare cromatico di queste opere, l’impressione di fluttuazione incorporea accesa di una luce interna, inducono risolutamente a lasciare da parte le categorie estetiche e prendere atto della vibrante intensità spirituale. Si tratta di un’intensità costantemente legata all’uso di materiali organici che hanno in sé il seme della vita e la forza del nutrimento: latte, polline, ma anche il riso, che Laib ammucchia accanto a piccole case di legno, marmo o acciaio, riprese nella forma da antichi reliquiari per contenere non più ossa e morte, ma cibo e vita.
Ancora, altra materia prediletta è la cera, spesso utilizzata per modellare arche sospese su impalcature di legno grezzo e che sostengono un complesso gioco di rimandi spirituali alle immagini della casa e della barca, alle dimensioni del viaggio e della stabilità. L’opera di Laib nel suo complesso, come ben si vede a partire dai singoli componenti, finisce in effetti per trascendere la dimensione strettamente artistica in cui si presenta, e, in linea con la lezione di Joseph Beyus a cui Laib fa diretto riferimento, acquisisce una valenza radicale, partecipe di una devozione religiosa senza per questo lasciarsi delimitare in una fede, trascendente nel suo rispetto ascetico e insieme sensuale per la materia vivente dell’universo.
luca arnaudo
mostra visitata il 18 ottobre 2005
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mostra inutile come il resto della collezione del macro.
Mi riferisco al precedente commento di c.a.s.a. per un appunto marginale: proprio perché si parla di inutilità, sarebbe utile svolgere in maniera più approfondita le proprie considerazioni per consentire di migliorare ciò che si contesta, o almeno per discuterne con maggior profondità (il valore di un post in internet, del resto sta proprio nella sua possibilità di sviluppare un discorso comune). La lapidarietà non è sinonimo di intelligenza.
Tanto dovevo,
il recensore della mostra