Un gran numero di pratiche estetiche vengono ascritte in questi anni a un non meglio precisato
neo-concettualismo, termine cui andrebbe dedicata maggiore attenzione in sede teorica. Nella produzione a esso associata, il recupero di alcune costanti della conceptual art degli anni ‘60 e ‘70, prima fra tutte la propensione all’investigazione tassonomica, si accompagna a prerogative di segno opposto, quali una generale leggerezza di toni e intenti (più
John Baldessari, dunque, che
Joseph Kosuth) e una scoperta psichedelia negli esiti. Il ripristino di istanze analitiche e metalinguistiche sta quindi avvenendo, al cospetto della declinante koinè pop/postmodernista, entro precisi parametri, più per innesti che per confutazioni, sicché in sede di valutazione appare preferibile inquadrare commistioni più che decretare ritorni.
Scozzese
mid career approdato via Canada in California,
Euan MacDonald (Edimburgo, 1965; vive a Los Angeles) si muove su questa superficie di faglia, lungo la quale va rintracciato anche il lavoro di artisti formidabili come
Gabriel Orozco,
Erwin Wurm o
Martin Creed. Catalogazione e scarto percettivo costituiscono i terminali entro cui MacDonald è solito realizzare lavori accattivanti e di agevole decodificazione. Se nel 2005 si presentò a Roma con una serie adamantina di disegni e video, tutti votati alla grazia dell’assurdo ottico e metronomico, al secondo appuntamento l’esercizio proposto è un progetto più complesso e centralizzato. E al solito fa piacere constatare come l’artista rigoroso non abbia bisogno di mostrarsi anche risicato.
La mostra
The Field prende le mosse da una collezione di vecchi vinili della Bbc, in cui è stata suddivisa per categorie una grande varietà di ambientazioni acustiche predefinite (si va da
Home sounds a
People’s reactions, da
Animals–Domestic and domesticated a
Supernatural and space), ampliata fino al parossismo negli episodi delle singole tracce (
Cats fight,
Phantoms of darkness,
Evil rises up). A parete, in un susseguirsi di associazioni visive plausibili e non, MacDonald ha affiancato le etichette con sovrascritte le
tracklist a fotogrammi di intonazione evocativa riprodotti su identici bollini, onde comporre un fregio strutturato come
continuum di pseudo-dittici.
Poi, a chiudere, in due video-installazioni totalizzanti e complementari, ha trasferito l’analisi su un piano di focalizzazione estrema, assommando nell’una i dati di partenza forniti dall’informativa sul vinile, e nell’altra quelli che se ne discostano per accelerazione analogica. Così, per scomposizione addizionale, è giunto a una compiuta formalizzazione del concetto stesso di risonanza.
Se, dunque, il collasso per contiguità delle aspettative di senso è da manuale del tautologismo in arte, più interessante risulta soffermarsi sul tenore autoironico con cui MacDonald sembra parodiare dall’interno i limiti del processo autoriflessivo. In questo senso, l’apparizione sublime di un’isola vera e propria che nel video
Volcano ha del caricaturale, “disco” all’orizzonte che a sua volta vibra e risuona, è il climax sorprendentemente visionario di un discorso che resta di strenua circolarità, ma che presenta maglie larghissime.
A corredo della mostra, da segnalare anche
Monument, irresistibile plastico in bronzo con una palma e la lunga ombra che si fa architettonica.