Persone che si muovono, persone che stanno compiendo un’azione ben precisa. Gruppi catturati in un istante, poi separati sagoma per sagoma e riassemblati in un nuovo insieme. Sono le
Masse di
Simona Uberto (Savona, 1965; vive a Milano): una serie di installazioni -serigrafie su acciaio, alluminio, legno- che raccontano spaccati di vita. Alcune letteralmente sbucano dalle pareti, colte in scene quotidiane. Passeggiano, portano a spasso il cane, vanno in bici, in motorino, leggono il giornale, si abbracciano. Le piccole sagome giocano e dialogano con la parete bianca che le fa da sfondo, e con chi le osserva, contribuendo in questo modo al ricrearsi della situazione da cui sono state estrapolate. Le due facce, infatti, da una parte presentano lo scatto fotografico, dall’altra il supporto privo d’immagine che funge da specchio. In questo modo riflettono la fotografia della sagoma che hanno di fronte, così da ingannare l’occhio in una ripetizione infinita. Il modo, infine, con cui sono state installate sulla parete, crea un ulteriore gioco di luce che si trasforma in una serie di ombre. Tutto muta a seconda di come ci si pone di fronte alle piccole figure, unico invariato è il movimento, l’idea di movimento.
In
Border line l’artista sostituisce al gioco dello specchio un’altra forma di azione. La fotografia da un lato viene sviluppata normalmente, dall’altro è invece volutamente mossa. Due sviluppi della stessa posa. Scatto, sviluppo e realizzazione eseguiti dall’artista. Nella serie, poi, che dà nome all’esposizione, la visione è frontale. Non più, quindi, profili con giochi d’ombre e specchi ma impatto diretto sullo scatto. Qui le sagome si muovono su piani paralleli, strati. L’effetto ottenuto è proprio la moltitudine, la massa.
Punto di vista dall’alto, invece, per le
Aggregazioni. Qui un gruppo di persone in sit-in viene osservato da lontano: un insieme con uomini e donne, in piedi e per terra, con borse e megafono, un altro piccolo gruppo che arriva, una camionetta della polizia. Niente giochi di luce e d’ombre, nessuno specchio. Solo il punto di vista, l’osservazione, il racconto. Come nelle piccole cornici della memoria, piccoli scatti montati su adesivi e assemblati in nuove pose.
Come sempre accade nella sede romana di Romberg, al lavoro dell’artista nello spazio espositivo “Solo Show” se ne affianca un altro in quello esterno, la “Camera Con Vista”. Qui, visibile dalla vetrina che si affaccia sulla piazza,
Nathalie Du Pasquier (Bordeaux, 1957; vive a Milano) ha allestito un coloratissimo, grande robot in stile cartone animato. Una sorta di Voltus V, per i nostalgici dei tempi lontani che non si vogliono arrendere ai Gormiti. Nella “stravaganza” dell’oggetto, nel gioco delle forme, affiora l’influsso della militanza dell’artista nel gruppo
Memphis come designer.