Debora Hirsch (San Paolo, Brasile, 1967; vive a Milano) è uno di quegli attori transnazionali che la sociologia moderna amerebbe: è in parte italiana, nella formazione e nell’attuale vita lavorativa, e in parte, di nascita, è brasiliana. Straniera in terra di stranieri. Per la Fondazione Olivetti offre la rappresentazione del suo status incerto, fluido e finanche critico, con
BR-101.
La sigla identifica una linea ferroviaria che percorre la costa brasiliana da nord a sud, un vettore di modernizzazione che traccia una pura linea e che omette tuttavia i suoi frastagliati contorni. Lungo una strada di circa 4500 chilometri, Hirsch pone il suo obiettivo e scatta fotografie che sono solo il primo passo di un processo di elaborazione digitale per estraniare soggetti dai propri contesti e riunirli in un’unità di spazio-tempo voluta, ponderata e offerta nuda allo spettatore. Nuda perché cruda, se l’assonanza permette il gioco di parole. Hirsch sottolinea il contraddittorio per denunciare la verità congenita di una ricchezza ostentata che si accompagna a sacche di povertà dilagante.
Delle 4mila fotografie appartenenti alla serie, la Fondazione ne espone circa una dozzina.
Gli ambienti lussuosi di case aristocratiche si caricano di presenze neglette, con la domestica che attraversa il corridoio sfarzoso o una finestra che nella perfezione barocca del kitsch tardoborghese lascia intravedere realtà ai margini dell’esistenza. Scene desolate si animano di individui comuni in pose incongrue, eliminandone ogni ipotesi narrativa di un prima e un dopo che definisca l’azione; altrimenti, i paesaggi urbani mostrano una vita intenta in un lavoro, in un gioco tra amici, nella contemplazione del tramonto.
È un’intenzione che non ha un seguito, perché Hirsch congela le presenze; la fotografia, allora, stando alla sua propensione per una pluralità dei mezzi espressivi, è la scelta opportuna per condensare l’attimo. Movimento e immobilità sono le due dimensioni toccate. Anche la galleria si pone su entrambe nell’organizzazione espositiva. Il piano terra dedica spazio alle fotografie di
BR-101 disponendo analogie più per formato che per eventuale gioco tra i contenuti, forse concentrando troppo il tutto nel corridoio iniziale.
Si scende invece a un piano inferiore per godere delle due sale simmetriche in cui vengono proiettati i video
Last Supper e
Uphill. Il primo è un tributo all’arte warholiana. Giocando sulla citazione dell’opera di
Leonardo, di cui lo stesso
Warhol era estimatore, Hirsch affronta il tema dell’origine sociale della criminalità giovanile: emarginazione ed esclusione le cause prime. La risoluzione delle immagini è quella minima che attesterebbe la riconoscibilità dell’identità del deviante. Dodici volti oscurati da pochi pixel, eredi digitali di invisibilità sociale.
Anche
Uphill gioca sulla dicotomia tra movimento e stasi, cambiamento, transito e immobilità, status quo. La parte conclusiva della mostra riesce a creare un dialogo visivo più chiaro con il visitatore: nei temi trattati manca l’occidentale che dichiara indulgenza a fronte di realtà disadattate. È invece uno sguardo schietto, che Hirsch vuol far sostenere, perché a rigor di logica è quello che muove la ragione più che il sentimento.