Zone periferiche è un’idea di Heidrun Sandbichler (Innsbruck, 1970), che porta avanti una riflessione sulle frontiere tra diversi territori, sia fisici che psicologici. E, più in particolare, sul fragile confine che delimita natura e religione, quotidianità e memoria, politica e mass-media. In questa società, le tradizioni si impregnano di influenze esterne e contemporaneamente si rafforzano di fronte ad una possibile scomparsa, mentre le religioni si intrecciano più che mai all’economia e alla politica. Una problematica vincolata con la globalizzazione che da un lato mira alla permeabilità tra le culture e dall’altro potenzia paradossalmente la coesione della coscienza locale.
Per la sua prima personale in Italia, l’artista austriaca ha sviluppato quest’argomento applicandolo all’iconografia cristiana, mediante l’utilizzo di molteplici tecniche e materiali di diverso genere. Così il percorso inizia con un’installazione eseguita a terra. Sul pavimento l’artista disegna la pianta delle strutture archeologiche che giacciono sotto la basilica romana di San Clemente. La sua configurazione stratificata, conseguenza di una memoria piena di percorsi storici accidentati, serve alla Sandbichler per riflettere sulla sorprendente permeabilità degli esseri umani.
Dalle pareti invece osservano o giudicano, come in una dimensione eterea, pensieri eterogenei. Come Senza titolo, opera fotografica in bianco e nero in cui l’assenza di punti di riferimento e la nebbia che domina il paesaggio conferisce un tono metafisico, in linea con i fondamenti cristiani. E poi riferimento all’ignoto, oppure un accenno al Monte degli Ulivi trasformato dal poeta Alfred de Vigny nel simbolo dell’angoscia di ogni persona di fronte al silenzio di un Dio apparentemente “muto, cieco e sordo al grido delle sue creature”.
Due tele con evidenti riferimenti biblici sulla perdita dell’innocenza accompagnano Il Monte del Tempio, trittico di light box con immagini e testi ricavati dal film Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli.
Un lavoro in linea con l’attenzione rivolta dalla galleria romana alla produzione di multipli/edizioni (da cui prende il nome lo spazio Unosunove), ma dove purtroppo il risultato si traduce in una mostra incongruente, in cui i singoli lavori risultano svincolati da qualunque unità concettuale. Focalizzando troppo l’attenzione sulla singolarità e la diversità delle opere, si trascura il necessario e coerente legame che servirebbe a sostenere un discorso critico.
angel moya garcia
mostra visitata il 15 maggio 2006
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